Manca oramai poco al 23 giugno, giorno in cui i cittadini di Sua Maestà britannica saranno chiamati al voto per decidere sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea.
Giorno dopo giorno, i toni della campagna referendaria si alzano. Spicca per originalità e un certo discutibile gusto della battuta l’ex sindaco di Londra Boris Jonshon, che si è spinto a paragonare l’Europa ad Adolf Hitler.
Almeno per alcuni giorni, le notizie provenienti dall’Austria allontaneranno nefasti presagi sui destini del progetto europeo, mai come oggi in crisi di ossigeno, di idee e di leadership.
Nelle prossime tre settimane, le cronache londinesi ci aiuteranno a capire ragioni ed emozioni dei due schieramenti. Alcune di queste cronache sono sconosciute ai più, come quella che circola più o meno segretamente nei corridoi dei palazzi di Bruxelles e che ha trovato voce nell’autorevole «The Guardian». I civil servants britannici hanno paura di finire sulla strada se i loro concittadini sanciranno il Brexit. E la paura fa 40. Anzi, fa 2.500, tanti quanti sono i funzionari inglesi che, futuri sudditi di Re Filippo, con un gesto quasi ingenuo hanno chiesto la cittadinanza belga. Una notizia che sembra fondata, anche se pudicamente nascosta in un clima da leggenda metropolitana.
Tutto ciò, al pari di quanto avviene in Italia nel dibattito sul referendum costituzionale, sembrerebbe dimostrare che, ancora una volta, l’aspetto emotivo gioca un ruolo non secondario negli umori e nelle scelte degli elettori.
Che per il Brexit prevalgano i «sì» o i «no», cerchiamo di immaginare le conseguenze sul futuro dell’Unione europea.
Se i risultati del 23 giugno aprissero le porte di uscita del Regno Unito dalla casa europea, si sperimenterebbe per la prima volta la procedura di recesso dall’Unione introdotta dal Trattato di Lisbona. Già questo costituirebbe un precedente traumatico di forte impatto sull’opinione pubblica di tutti i Paesi comunitari.
Due sarebbero le conseguenze. La prima è che, una volta fuori gioco il Regno Unito, svanirebbe l’ombra lunga che ha permesso ad altri Paesi europei di non uscire allo scoperto, obbligandoli ora ad esprimere la loro visione sull’Europa e sulle sue scelte politiche fondamentali.
Nel 2004, la decisione del governo Blair di indire il referendum sulla ratifica del Trattato costituzionale fu vincente. Bastò un’abile finta di corpo per sbilanciare e mettere al tappeto due Paesi fondatori come la Francia e i Paesi Bassi. Risucchiati nel vortice dei referendum nella primavera del 2005, la maggioranza dei francesi e degli olandesi suonarono la campana a morto alle speranze costituzionali del progetto europeo.
Allora la Gran Bretagna non si dovette neppure sporcare le mani (il referendum, infatti, non si tenne), lasciando ad altri la responsabilità di affondare il trattato costituzionale.
Forse anche l’annuncio da parte di David Cameron, nel 2013, di questo nuovo referendum poteva essere una sorta di bluff per riacciuffare per i capelli l’elettorato anti-europeo raccolto attorno al partito per l’indipendenza del Regno Unito di Neil Farage ed evitare un clamoroso calo dei conservatori, da molti dato per certo. I risultati delle elezioni politiche del 2015 hanno dato ragione a Cameron. Risultati che hanno dato il via a vicende su cui lui stesso ha avuto un non pieno controllo, anche se il premier ha potuto contare sulla sicura sponda dei suoi partner europei. Stavolta dunque, più che un bluff, la strada del referendum si dimostrerebbe, in caso di esito negativo, una scelta sbagliata, finendo per aprire il vaso di Pandora degli umori più intimamente anti-europei degli inglesi.
La seconda conseguenza di un eventuale Brexit sarebbe poi l’aumento delle pulsioni sovraniste o peggio anti-europee di Paesi che mal digeriscono il carattere democratico dell’Unione europea. I cosiddetti Paesi di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria) potrebbero essere tentati dall’intraprendere la strada della recessione, utilizzandola anche come mezzo di pressione. Per molti di loro lo Stato di diritto è una camicia di forza insopportabile, come dimostrano scelte politiche di dubbia legittimità costituzionale, sulle quali le istituzioni di Bruxelles hanno un atteggiamento pilatescamente accomodante.
Anche se non immediato, l’effetto domino non viene dunque escluso, a tal punto che si sussurra l’ipotesi di un piano B. Ci riflette sommessamente la Germania. Riaffiora come un fiume carsico l’idea del nocciolo duro di Paesi stretti da vincoli di integrazione più intensi, idea a cui contribuì nel 1994 l’attuale super ministro delle finanze Schäuble insieme ad altri autorevoli politici tedeschi.
A Bruxelles si sussurra che il potentissimo capo di gabinetto del volenteroso presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, non sarebbe contrario a una simile idea. Solo leggende? Non è certo leggenda, è un dato politico, la grande influenza tedesca all’interno delle istituzioni europee, al di là di quella di Angel Merkel. La presenza tedesca in posti strategici è in grado di condizionare le scelte politiche delle istituzioni europee. Oltre al super capo dello staff di Junker, sono tedeschi il presidente e il segretario generale del Parlamento europeo, il capogruppo del Partito popolare europeo, la gran parte dei capi staff dei Commissari, nonché i top manager dei più importanti dipartimenti dell’esecutivo di Bruxelles.
Per contro, la presenza dei britannici in posti chiave nell’amministrazione europea si è fatta quasi impalpabile, come quella dei francesi, in passato la nazionalità più influente, e degli stessi italiani. Un dato da non sottovalutare per comprendere la politica europea, tra cui l’idea di lavorare per il nocciolo duro, facendo riemergere la vecchia idea di un’Europa a due velocità.
Cosa accadrebbe invece nel caso i risultati del 23 giugno marcassero la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea? L’applicazione dei accordi definiti tra Londra e Bruxelles al termine dei negozianti potrebbero provocare atteggiamenti emulativi da parte degli stessi Stati membri citati in precedenza, che si sentirebbero legittimati a richiedere all’Unione europea deroghe o status particolari, lungo il solco di quelle avanzati dal Regno Unito.
In questo caso, riaffiorerebbe con forza un altro tradizionale approccio metodologico nella partecipazione all’Unione. La cosiddetta Europa «alla carta», attraverso cui ciascuno Stato membro potrebbe scegliere nel menù delle politiche comuni, quelle che più soddisfano i propri interessi nazionali. Con l’«Europe à la carte», si aprirebbero le porte a un’Europa diluita, progetto da sempre al centro della visione di tutte le forze politiche britanniche. Un’Europa del solvente britannico, privata dello spirito di solidarietà delle origini e senza alcuna prospettiva di realizzare un’Unione sempre più stretta tra i popoli europei (formula a cui il Regno Unito si sempre opposto).
Immaginare scenari futuri e difficile almeno quanto fare previsioni affidabili sui risultati del referendum del 23 giugno. Se sarà un’Europa del magnete tedesco o del diluente britannico, o se semplicemente non sarà. Quel che appare certo che si apriranno prospettive nuove nel dibattito politico europeo, dagli esiti incerti e imperscrutabili per il futuro dell’integrazione continentale, tenuto conto della latitanza di una autorevole leadership europea.
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