Il 19 settembre scorso, l’Azerbaigian ha attaccato l’area sotto il controllo armeno del Nagorno-Karabakh. L’offensiva si è conclusa nel giro di 24 ore con la capitolazione della repubblica separatista, mettendo fine alla storia del Nagorno-Karabakh come Stato de facto indipendente. Per circa 120 mila persone è così iniziato un esodo di massa verso l’Armenia.

Per provare a comprendere la questione del Nagorno-Karabakh è necessario fare un salto indietro di circa un secolo, ai primi anni Venti del Novecento, quando il Caucaso meridionale venne conquistato dal nascente Stato sovietico. Con una decisione che avrebbe influenzato le dinamiche della regione nei decenni successivi, nella primavera del 1921 le autorità sovietiche assegnarono alla Repubblica socialista sovietica (Rss) azera il Nagorno-Karabakh (per il cui controllo Armenia e Azerbaigian avevano combattuto una guerra tra il 1918 e il 1920, nel breve periodo della loro indipendenza dopo il crollo dell’Impero russo).

Nonostante la sua popolazione per tre quarti armena, il Nagorno-Karabakh divenne quindi una oblast’ autonoma all’interno della Repubblica socialista Azera. Stesso destino toccò al Nachicevan, regione abitata principalmente da azeri, ma separata dal resto della repubblica dal territorio della Rss Armena. L’epoca sovietica e la prima guerra del Nagorno-Karabakh. Il dominio sovietico congelò le tensioni territoriali tra Armenia e Azerbaigian per decenni. Tuttavia, in seno alla società armena, covava un sentimento di insoddisfazione per l’assegnazione dei territori.

Come scrive Thomas de Wall in Black Garden: Armenia and Azerbaijan through Peace and War (2003), l’opera che forse meglio racconta la storia del Nagorno-Karabakh

“Ogni volta che si verificava un disgelo politico o un importante cambiamento politico in Urss – nel 1945, 1965 e 1977, per esempio – gli armeni [del Nagorno-Karabakh] inviavano lettere e petizioni a Mosca, chiedendo che la regione fosse annessa alla Rss Armena”.

Tali richieste venivano sistematicamente ignorate dalle autorità sovietiche finché, alla fine degli anni Ottanta, la questione del Nagorno-Karabakh tornò prepotentemente sulla scena. La perestrojka e la glasnost’ diedero agli armeni della regione e in Armenia lo spazio di manovra necessario per organizzarsi. A partire dal 1987 si mobilitarono in massa intorno allo slogan miatsum [“unione” in armeno] per richiedere a Mosca l’unione del Nagorno-Karabakh all’Armenia. Seguirono anni di violenze e tensioni a cui le autorità sovietiche non trovarono una soluzione. Nel dicembre 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la popolazione armena nella regione autonoma si espresse a favore dell’indipendenza dall’Azerbaigian in un referendum boicottato dalla minoranza azera. Visto il rifiuto di Baku di accettare la secessione, la guerra era inevitabile.

In Azerbaigian le richieste di indipendenza degli armeni del Nagorno-Karabakh vennero accolte con rabbia e a farne le spese fu la consistente minoranza armena nelle città del Paese. Tra gli episodi di violenza ricordiamo i pogrom di Sumqayıt (1988) e Baku (1990) raccontati nel romanzo Sogni di pietra dello scrittore azero Akram Aylisli, che per la sua opera è stato vittima di una campagna diffamatoria perpetrata dalle autorità azere. Le forze armene ebbero la meglio: espulsero l’esercito azero dalla regione e occuparono parzialmente anche sette distretti azeri limitrofi al Nagorno-Karabakh, incluso il corridoio di Lachin che unisce la regione all’Armenia, e altre aree che si frapponevano tra il territorio armeno e l’ex oblast’ autonoma. Il conflitto, iniziato nel 1992, si concluse nel 1994 con la firma di un accordo di cessate il fuoco a Biškek, in Kirghizistan.

La prima guerra del Nagorno-Karabakh fu una catastrofe, aggravata dalla precaria condizione economica in cui i contendenti versavano nei primi anni della loro indipendenza. Costò 30 mila morti e costrinse centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case: l’intera popolazione azera dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh, inclusi i distretti limitrofi finiti sotto occupazione armena, fuggì in Azerbaigian che, nel frattempo, venne abbandonato dalla sua minoranza armena. Gli episodi di violenza contro i civili furono numerosi sia prima che durante il conflitto.Tra le pagine più nere della prima guerra del Nagorno-Karabakh troviamo il massacro di Khojaly del 26 febbraio 1992, con l’uccisione di centinaia di civili azeri da parte da parte dell’esercito armeno e di un reggimento russo in un centro abitato poco distante da Stepanakert.

Negoziati e nazionalismo. Seguirono trent’anni di quello che veniva impropriamente definito come un “conflitto congelato”, termine usato in ambito giornalistico e accademico di cui gli eventi degli ultimi anni in Nagorno-Karabakh, e non solo, hanno definitivamente mostrato l’inadeguatezza. La situazione sulla linea di contatto tra forze armene e azere era tutt’altro che congelata: periodicamente si sparava e morivano giovani soldati. Il Nagorno-Karabakh (Artsakh in armeno) formalmente era uno stato indipendente, ma non riconosciuto da nessun paese membro dell’Onu, neanche dall’Armenia che ne garantiva la difesa e il sostentamento economico. Solo in tal modo la via dei negoziati poteva rimanere aperta.

I negoziati però non portarono a molti risultati. Il Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), il meccanismo internazionale preposto a risolvere il conflitto, non riuscì a superare lo stallo. Se le parti concordarono su alcuni punti di base – i cosiddetti princìpi di Madrid – quali il ritiro dell’esercito armeno dai distretti occupati limitrofi al Nagorno-Karabakh, il ritorno degli sfollati e lo svolgimento di un nuovo referendum per definire lo status futuro della regione a cui prendesse parte la minoranza azera, nella realtà poco si mosse.

Nel frattempo, in Armenia e Azerbaigian un’intera generazione cresceva nell’odio reciproco e nel ricordo delle violenze subite nel corso della guerra degli anni Novanta. La questione del Nagorno-Karabakh divenne infatti uno dei miti fondanti del nazionalismo di entrambi i Paesi.

La questione del Nagorno-Karabakh è divenuta uno dei miti fondanti del nazionalismo di entrambi i Paesi. Da parte armena la vittoria nel primo conflitto del Nagorno-Karabakh rappresentava una sorta di riscatto collettivo per la perdita di quella che viene definita “Armenia occidentale”, ovvero la parte orientale dell’Anatolia dove viveva una consistente popolazione armena caduta vittima del genocidio del 1915. Da parte azera, il trauma della sconfitta assunse connotazioni altrettanto forti. La macchina propagandistica promuove il Paese come esempio di multiculturalismo nella regione. Ma nella realtà, il minimo comune denominatore del nazionalismo azero negli anni dell’indipendenza è stata l’armenofobia, ovvero l’odio per tutto ciò che è armeno.

La guerra del 2020. Baku, grazie alle entrate derivanti dalle sue risorse energetiche, negli ultimi due decenni ha costruito un esercito dotato delle armi più moderne. Col passare del tempo, visto lo stallo dei negoziati, le autorità del Paese si sono risolte a risolvere la questione del Nagorno-Karabakh con la forza.

Nell’aprile 2016, ci fu una prima escalation, nota come guerra dei quattro giorni . Si sarebbe poi capito che erano solo le prove generali. Il 27 settembre 2020, l’Azerbaigian lanciò un’offensiva che proseguì fino al 9 novembre. Nei 44 giorni di guerra, l’esercito azero ebbe la meglio sulle forze armene. Riuscì a riconquistare diversi distretti, tra i quali la città Shusha/Shushi,un luogo di particolare importanza strategica e simbolica per entrambi i contendenti sulle alture che dominano sulla capitale della regione Stepanakert.

Un giorno dopo la caduta della città, il 9 novembre 2020, le parti, con la mediazione russa, firmarono un accordo di cessate il fuoco, sostanzialmente una resa armena.

Baku, grazie alle entrate derivanti dalle sue risorse energetiche, negli ultimi due decenni ha costruito un esercito dotato delle armi più moderne

Per effetto del conflitto dei 44 giorni morirono più di 7 mila persone da entrambe le parti, decine di migliaia di civili armeni rimasero sfollati e cambiarono gli equilibri di forza nella regione. Nel corso dei conflitti nel 2020 e nel 2022 sono emersi online innumerevoli video che ritraevano soldati azeri commettere violenze ed esecuzioni sommarie contro prigionieri di guerra armeni. Quest’anno l’Armenia ha iniziato il processo per ratificare lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Questo tribunale è l’unico che ha il mandato di iniziare una inchiesta al riguardo.

L’accordo di cessate il fuoco. In base ai nove punti dell’accordo di cessate il fuoco, l’Armenia si ritirò da una serie di aree limitrofe e da parte della regione del Nagorno-Karabakh così come definita in epoca sovietica. La popolazione armena di questi territori abbandonò le proprie abitazioni, in molti casi incendiandole per non lasciarle agli azeri. L’accordo però lasciava diversi punti irrisolti, tutti nodi che sarebbero venuti al pettine nel corso dei tre anni che ci portano al 19 settembre 2023. La posizione di forza acquistata nel 2020 e gli sviluppi internazionali non facevano altro che spingere Baku a far pressione sull’Armenia per risolvere la questione una volta per tutte.

In primo luogo, il documento non menzionava lo status futuro del Nagorno-Karabakh. In secondo luogo, la Russia diventava un attore fondamentale per garantire la sicurezza della popolazione armena del Nagorno-Karabakh. L’accordo infatti prevedeva il dislocamento di una forza di peacekeeping russa nel territorio della regione e sul corridoio di Lachin, l’unico collegamento tra Nagorno-Karabakh e Armenia. Il Cremlino è parallelamente impegnato nella difesa del territorio dell’Armenia (ma non del Nagorno-Karabakh non essendo la regione de iure parte del territorio armeno) tramite l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

Con il ritiro delle forze armene dalle regioni limitrofe al Nagorno-Karabakh, emergeva anche la necessità di demarcare la nuova frontiera tra Armenia e Azerbaigian, ma i problemi non mancavano visto che in epoca sovietica non esistevano confini chiari. Non a caso già nei primi mesi del 2021 tra i due Paesi ci furono una serie di schermaglie.

La mediazione di Mosca riuscì a calmare le acque nell’anno che seguì la guerra del 2020, ma l’invasione russa dell’Ucraina fece presto a far sentire la sua influenza sul Caucaso meridionale. Prendendo per vera l’ipotesi che Mosca avesse interessi reali a risolvere la questione del Nagorno-Karabakh, era ora impelagata in un conflitto che ne minava le capacità di mediazione. Inoltre, le sanzioni contro la Russia facevano e fanno dell’Azerbaigian un Paese fondamentale sia come transito per le esportazioni energetiche russe che come fonte di materie prime per gli stati europei. Questa dipendenza rende Baku impermeabile alle influenze esterne.

Le sanzioni contro la Russia fanno dell’Azerbaigian un Paese fondamentale sia come transito per le esportazioni energetiche russe sia come fonte di materie prime per gli Stati europei

In questo modo si spiegano le tempistiche dell’offensiva di Baku del settembre 2022. Tra il 12 e il 14 di quel mese, l’esercito di Baku attaccò il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian occupando alcune zone strategiche in territorio armeno. Nell’escalation persero la vita centinaia di soldati e circa 7.600 civili armeni rimasero sfollati.

Isolamento e una nuova guerra. Nei mesi successivi, l’Azerbaigian concentrò invece i suoi sforzi sul Nagorno-Karabakh. Dall’inizio di dicembre 2022 Baku ha infatti bloccato il passaggio di mezzi e persone lungo il corridoio di Lachin – che si era impegnata a tenere aperto nel trattato di pace del 2020. Inizialmente il blocco era portato avanti da un gruppo di sedicenti attivisti ambientalisti azeri (di cui sin dall’inizio era chiara l’affiliazione alle autorità di Baku). Ad aprile, l’esercito di Baku ha costruito un check point e gli “attivisti” hanno lasciato l’area.

Il blocco del corridoio di Lachin, l’unico collegamento tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, ha reso progressivamente la vita nella regione più ardua. Col passare dei mesi le forniture alimentari e di medicinali sono andate diminuendo e, per lunghi periodi, mancavano gas ed elettricità. Tale situazione ha complicato le relazioni tra Russia e Armenia e, vista la già menzionata importanza del ruolo di Mosca, questo può spiegare le dinamiche che hanno portato alla fine dell’indipendenza del Nagorno-Karabakh. Il governo armeno, infatti, insoddisfatto dell’inazione dei peacekeeper russi di fronte al blocco del corridoio di Lachin e al mancato intervento russo durante l’escalation del settembre 2022, ha iniziato a guardare altrove per rompere la sua dipendenza dalla Russia.

Nel dicembre 2022, in risposta a una richiesta delle autorità armene, l’Unione europea ha istituito una missione civile (Euma) per monitorare la situazione al confine con l’Azerbaigian (non in Nagorno-Karabakh). Erevan ha anche provato a risolvere le relazioni con la Turchia, alleata storica dell’Azerbaigian, che non intrattiene rapporti diplomatici con l’Armenia dal 1993. In tal senso, simbolica (anche se infruttuosa) è stata la presenza di Pashinyan all’inaugurazione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a giugno (sulle relazioni tra Armenia e Turchia si rimanda a questo articolo). Di fronte al complicarsi della situazione in Nagorno-Karabakh, l’Armenia ha criticato apertamente la Russia. Il 3 settembre Pashinyan ha, per esempio, definito l’alleanza con la Russia un errore strategico in un’intervista a “la Repubblica”.

Arriviamo quindi all’attacco del 19 settembre, di cui Mosca era stata informata preventivamente da Baku, e alla resa del Nagorno-Karabakh del 20 settembre. I media di stato russi hanno subito incolpato l’Armenia dell’escalation, mentre personaggi mediatici quali l’ex presidente Dmitrij Medvedev e la giornalista Margarita Simon’jan si sono scagliati contro Pashinyan. Nella narrazione del Cremlino il premier armeno è reo di aver provato ad allontanare il paese dall’orbita russa. Il 20 settembre, dopo la firma del cessate il fuoco, la resa definitiva del Nagorno-Karabakh, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha poi dichiarato che il conflitto è una questione interna all’Azerbaigian, implicitamente confermando il disinteresse di Mosca a sostenere la parte armena.

Nel frattempo, decine di migliaia di armeni sono in fuga dal Nagorno-Karabakh, dopo un secolo fatto di guerre, violenza e odio che hanno spopolato la regione.

[Questo articolo è pubblicato su Meridiano 13].