«Apesar de você, amanhã há de ser outro dia» («Nonostante te, domani dovrà essere un altro giorno»). Così cantava Chico Buarque nel 1978, sfidando la dittatura militare e auspicando un futuro migliore per il Brasile rispetto al regime autoritario dell’epoca. Parole rese più attuali che mai dalla vittoria alle elezioni presidenziali di Jair Bolsonaro. Non perché il Brasile stia entrando in una spirale autoritaria: Bolsonaro, infatti, ha vinto elezioni libere e democratiche staccando di più di 10 milioni di voti (il 10% dei votanti) il suo avversario Fernando Haddad del Partito dei Lavoratori (Pt). E neppure perché Bolsonaro presenti una proposta politica ben strutturata in senso anti-democratico. Benché durante tutta la campagna elettorale si sia mostrato come l’oppositore più accanito del Pt, nel corso degli anni Bolsonaro ha più volte votato in Parlamento le riforme proposte dallo stesso partito di Lula, dai sussidi, agli incentivi fiscali ai finanziamenti pubblici a privati. In questo senso vanno lette le forti dissonanze emerse durante la campagna elettorale tra il candidato Bolsonaro e il suo consigliere economico, Paulo Guedes, che molto probabilmente diventerà ministro dell’Economia. E anche per questo l’elettorato di Bolsonaro è così articolato e diversificato, sia per posizioni politiche sia per classe sociale di appartenenza. La proposta politica del neopresidente è così poco definita che la vera sfida del nuovo esecutivo sarà cercare di tenere insieme questo universo frastagliato. Bolsonaro, il suo movimento e i suoi elettori, insomma, non hanno un orizzonte di senso coerente e condiviso che vada oltre l’idea di rappresentare l’alternativa al Pt, principale causa (stando alle loro parole) della corruzione del sistema brasiliano.

E, allora, perché «Apesar do Bolsonaro, amanhã há de ser outro dia»? Perché, cioè, sembra inverosimile che Bolsonaro trasformi il Brasile in un Paese misogino, reazionario, autocratico, al pari delle dichiarazioni fatte durante l’ultima violenta campagna elettorale? La risposta a questa domanda sta nelle sfide che il neoeletto presidente dovrà affrontare.

La prima è di natura squisitamente politica. Il Parlamento con cui Bolsonaro dovrà confrontarsi è uno dei più frammentati della storia del Brasile democratico: alla Camera saranno rappresentati ben 35 partiti, nessuno dei quali supera il 12% dei seggi; al Senato ce ne saranno 21 e il primo partito in numero di seggi supera di poco il 13%. In entrambi i casi, poi, il partito di Bolsonaro, il Partito Sociale Liberale, non detiene nemmeno la maggioranza relativa. Una situazione complicata che rende assai delicata l’approvazione di qualsiasi progetto di legge. I primi sondaggi e le proiezioni, elaborati dal quotidiano «Folha di São Paolo» mostrano le divisioni dei deputati in materia economica. E né Bolsonaro, né i suoi principali consiglieri hanno mostrato fino ad ora una spiccata capacità di conciliare posizioni politiche differenti.

C’è, poi, una sfida di natura istituzionale. Il Tribunale Supremo del Brasile e, più in generale, il potere giudiziario hanno sempre mostrato un buon livello di indipendenza. Il che dovrebbe rappresentare un argine contro un’eccessiva militarizzazione della sicurezza o possibili riverberi politici delle affermazioni misogine fatte da Bolsonaro. Oltre al sistema dei checks and balances tipico delle democrazie liberali, esiste un ulteriore argine alla possibile diffusione del bolsonarismo: i media e, in particolare, la pluralità nella carta stampata. Nel corso della campagna elettorale, infatti, Bolsonaro si è scagliato non solo verso i mezzi di informazione vicini al Pt, ma anche contro i media che storicamente si sono opposti alle presidenze di Lula e Dilma Rousseff.

Vi è, infine, una questione legata allo «spirito dei tempi». Molti analisti internazionali, commentando le ultime elezioni brasiliane, hanno fatto riecheggiare il passato dittatoriale paventando una svolta autoritaria capace di riconnettersi con uno dei regimi militari più longevi dell’America Latina, iniziato nel 1964 e terminato nel 1985. Se negli anni Sessanta e Settanta l’irruzione dei militari in politica era una costante di buona parte dell’America Latina, oggi per fortuna non è più così. La democrazia, con forme, condizioni e modalità distinte, si è radicata nel continente e sarebbe davvero anacronistico un ritorno verso il passato autoritario. Per ragioni legate alla contingenza politica, alla realtà sociale e all’architettura istituzionale, sembra difficile che alle parole di Bolsonaro possano seguire riforme politiche concrete e coerenti: la distanza tra le promesse e le affermazioni della campagna elettorale e l’effettiva attività politica presidenziale misurerà la capacità predittiva di quelle Cassandre che in questi giorni stanno profetizzato l’imminente avvio di un regime dittatoriale. Sarà quella distanza a dirci se, nonostante Bolsonaro, nonostante la veemenza della campagna elettorale, nonostante le forti divisioni che attraversano la società brasiliana, nonostante le difficoltà economiche che ha affrontato il Paese negli ultimi anni, «domani dovrà essere un altro giorno».