Il populismo anti-immigrazione in Germania. La Germania rappresenta un’eccezione nel panorama europeo da molti punti di vista. La stabilità del suo sistema politico è stata osservata con interesse anche dopo lo scongelamento del sistema partitico grazie all’ingresso nell’arena parlamentare, all’inizio degli anni Ottanta, del partito dei Verdi e, dopo la riunificazione delle due Germanie, della Pds/Linke. Ma ciò che soprattutto ha attirato l’attenzione degli osservatori europei negli ultimi due decenni è stata l’assenza nello scenario politico tedesco di una consistente formazione di stampo populista. Negli anni in cui molti Paesi dell’Europa occidentale e non poche tra le democrazie dell’Europa centro-orientale dovevano confrontarsi con i successi di formazioni populiste, le uniche tracce di un richiamo al popolo secondo la classica dinamica manichea del “noi contro loro” erano riscontrate in alcune dichiarazioni isolate di partiti non inclusi nelle contrattazioni per l’ingresso nella compagine governativa a livello nazionale, come la Linke.
Il dibattito sull’integrazione dei “cittadini con passato migratorio” (mit Migrationhintergrund), in parte riconducibile al mutato scenario culturale post-11 settembre, ha però introdotto nella sfera pubblica tedesca un altro degli elementi tipici del populismo: il richiamo alla omogeneità culturale della collettività e lo scetticismo, se non l’aperto rifiuto, verso il carattere multiculturale della società contemporanea.
La prima manifestazione di queste tendenze è rappresentata dal cosiddetto “caso Sarrazin”. Nel 2010, Thilo Sarrazin, politico della Spd, già ministro delle Finanze del Land di Berlino e allora membro del direttivo della Deutsche Bank, dette alle stampe un libro/pamphlet dal titolo Deutschland schafft sich ab (La Germania si distrugge da sé), in cui criticava fortemente l’immigrazione islamica in Germania, così come il modello di integrazione culturale degli immigrati nella società tedesca. Il dibattito suscitato dalla pubblicazione del volume, amplificato dall’attenzione sensazionalista della stampa e delle reti televisive tedesche, sollevava per la prima volta in maniera evidente il velo sulla possibilità, anche in Germania, di rendere ampliamente notiziabili tematiche di stampo populista, fino a quel momento espresse dai piccoli partiti di estrema destra o “assorbite” e “disinnescate” dai partiti politici tradizionali, in particolar modo dalla Cdu.
Non avrebbe dovuto suscitare stupore, quindi, se non per le modalità che ne hanno contraddistinto le manifestazioni nella sua prima fase, l’apparizione nella sfera pubblica tedesca del movimento denominato Pegida (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes – Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente). Un'organizzazione non partitica che, dopo mesi dalla nascita (a Dresda, nel 2014), si è costituita come una “Associazione” intorno al fondatore Lutz Bachmann. Proprio da Dresda sono state organizzate, a cadenza settimanale, marce e manifestazioni in diverse città tedesche contro l’islamizzazione delle società occidentali. Con un’accattivante logica di comunicazione politica, il movimento ha assunto via via nomi che richiamano la città ospitante: Bogida (per Bonn), Dügida (per Düsseldorf), Kögida (per Köln) ecc.
Al centro della critica formulata da Pegida, oltre alla paventata islamizzazione, la politica dell’asilo condotta dalla Germania e dagli altri Paesi dell’Unione europea, i costi dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati, l’esistenza, all’interno delle società occidentali, di “società parallele” o codici di condotta basati su principi religiosi. Le richieste avanzate dagli aderenti a Pegida, che hanno nella pagina Facebook il principale canale organizzativo, vanno dall’introduzione di un sistema a punti per la regolamentazione dell’immigrazione, all’applicazione della “tolleranza zero” nei confronti di migranti irregolari, soprattutto se autori di crimini.
Al di là delle richieste di cui gli attivisti del movimento si fanno portatori, sono le dimensioni simboliche della protesta ad attirare l’attenzione degli osservatori e dei cittadini. In primo luogo, le manifestazioni si svolgono il lunedì, secondo il modello delle “Montagsdemo” nelle città della Germania dell’Est (Lipsia e Dresda, per l’appunto) nell’autunno della “rivoluzione pacifica” del 1989 prima della caduta del regime. La dimensione non partitica della protesta rinforza inoltre il richiamo al diritto di autodeterminazione del popolo nei confronti di modelli culturali ritenuti estranei o pericolosi.
Per un certo periodo le manifestazioni organizzate da Pegida hanno avuto un grande seguito, con un massimo di 25.000 partecipanti a Dresda nel gennaio di quest’anno. In seguito l’attivismo sembra essere calato, in parte a causa delle contro-manifestazioni (parallele o nei giorni successivi) di altre organizzazioni della società civile, in parte per le polemiche di infiltrazione delle forze dell’estrema destra che, soprattutto dopo lo scandalo della serie di omicidi perpetrati dal gruppo della Nsu (noto a livello mediatico come “Banda del Kebab”), sono divenute ancor più che nel passato oggetto dell’attenzione del mondo della politica e dei media.
Che anche il dibattito interno e intorno alla formazione – stavolta partitica – di AfD (Alternative für Deutschland) abbia contribuito a togliere raggio di azione a Pegida nei confronti del tema delle migrazioni è ancora da dimostrare. Sebbene la tematica principale di AfD sia costituita dall’antieuropeismo, infatti, posizioni anti-immigrazione giustificate dalla non sostenibilità dell’immigrazione in termini di prestazione dello Stato Sociale sono ampliamente diffuse all’interno del partito, e tra i suoi sostenitori.
C’è spazio per lo sviluppo del populismo anche in Germania, quindi. Ma soprattutto c’è necessità di un dibattito sulle modalità di accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, e sui modelli di integrazione finora adottati in questo come in altri paesi. Il caso Pegida dimostra, ancora una volta, che indicatori macroeconomici positivi a livello economico-finanziario non costituiscono un elemento protettivo nei confronti dello sviluppo di movimenti che mettono in discussione l’apertura delle società occidentali a modelli culturali diversi.
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