Sull’orlo dell’instabilità. È da un po’ di tempo che, in Europa e non solo, gli elettori tendono a penalizzare i partiti al governo. Gli incumbents, come dicono gli anglosassoni, partono svantaggiati. Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti. Oggi logora soprattutto chi l’ha appena esercitato.
Sembrava che la Germania potesse sottrarsi a questa tendenza. I risultati delle elezioni per il Bundestag di domenica 24 settembre smentiscono questa aspettativa. L’economia tedesca è apparentemente in buona salute e la disoccupazione è ai minimi, ma l’economia da sola non spiega perché gli elettori voltano le spalle a chi ha governato. Ci sono i poveri (la loro quota cresce anche se il Pil aumenta), ci sono i tagli alla sanità, i mini-job a 500 euro al mese, ci sono gli immigrati e la politica dell’accoglienza, il milione di profughi arrivati nel 2015 che non è facile integrare, la criminalità, la paura, l’insicurezza, reale o anche soltanto percepita. Forse anche, almeno per alcuni, la voglia di cambiare la faccia di chi ha governato ininterrottamente negli ultimi dodici anni.
La “grande coalizione” esce dalle urne con le ossa rotte: insieme Cdu-Csu-Spd hanno perso quasi il 15% dei consensi, consensi che si sono spostati a destra, verso il partito liberale e verso l’AfD. In realtà il (relativamente) nuovo partito di destra ha pescato anche nell’elettorato dei nuovi elettori, nel serbatoio dell’astensionismo (la partecipazione al voto è cresciuta rispetto alle precedenti elezioni) e in parte probabilmente anche nell’estrema sinistra che ha compensato le perdite accogliendo molti socialdemocratici delusi.
È la prima volta che nel Bundestag entra un partito alla destra dei cristiano-democratici. Un partito di pochi vecchi nostalgici, fatto prevalentemente di giovani e forte soprattutto nei Länder dell’Est (in Sassonia sarà forse il primo partito). La frattura Est-Ovest non è affatto saldata, attraversa l’Europa e taglia in due la stessa Germania.
Riconoscendo la sconfitta, Martin Schulz, che aveva condotto la campagna elettorale socialdemocratica proponendosi come il candidato anti-Merkel, ha dichiarato che ritiene chiusa la stagione della grande coalizione, anche se i numeri dei seggi consentirebbero una, sia pure risicata, maggioranza.
Resta, con una maggioranza ancora più sottile, la cosiddetta ipotesi «jamaika», dai colori della bandiera del Paese caraibico (nero-giallo-verde), ma è difficile che si formi e, se dovesse formarsi, è difficile che possa reggere a lungo, data l’incompatibilità degli obiettivi programmatici di verdi, liberali e cristiano democratici e cristiano sociali. E poi, sia all’interno dei Verdi sia all’interno dei liberali convivono anime diverse, e non è detto che un’eventuale esperienza di governo non faccia saltare gli equilibri interni. L’ipotesi «giamaicana» resta comunque sul tappeto. Di una eventuale grande coalizione estesa ai Verdi nessuno al momento ha osato parlare e nelle prime dichiarazioni la cancelliera ha escluso un governo di minoranza.
L’ipotesi che fra qualche mese, vista l’impossibilità di una coalizione di governo, i 61 milioni e mezzo di tedeschi debbano tornare a votare non è certo remota. Se si dovesse innescare un meccanismo di elezioni anticipate a catena, ad approfittarne sarebbero i partiti estremisti, primo fra tutti l’AfD. Per chi non ha la memoria corta, un’ipotesi agghiacciante.
Per l’Europa non è comunque una buona notizia. Tutto era fermo sul fronte europeo in attesa delle elezioni tedesche. L’elezione di Macron aveva riacceso le speranze che il motore franco-tedesco avrebbe potuto rimettersi in moto (ma anche su questo fronte il risultato del voto francese di ieri per il rinnovo parziale del Senato, che ha premiato la destra repubblicana, non è confortante). Angela Merkel resta pur sempre a capo del maggior partito tedesco sul quale ricade prima che su ogni altro la responsabilità di dare un governo alla Germania. Ma cosa potrà fare una Merkel indebolita? Tutti si lamentano dell’egemonia tedesca, ma come reagirà l’Europa se verrà meno la stabilità tedesca?
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