Il voto in Germania. Gli elettori tedeschi affidano per la terza volta consecutiva il compito di guidare il paese ad Angela Merkel, un leader anti-carismatico, premiano – sia pure in misura significativamente diversa – i due grandi partiti popolari a discapito delle formazioni minori ed esprimono, di fatto, la loro preferenza per un governo di Grande coalizione. Insomma, tutto il contrario di ciò che è avvenuto in Italia nel febbraio scorso, dove i due grandi partiti sono stati sanzionati a vantaggio del «Partito di Grillo» e dell’ingovernabilità.
Più nel dettaglio, la Cdu/Csu trionfa con il 41,8% dei consensi (ca. 3,5 milioni di voti in più rispetto al 2009), mancando per una manciata di seggi la maggioranza assoluta al Bundestag, mentre la Spd, con il 25,7% delle preferenze (ca. 1,2 milioni di voti in più rispetto al 2009), migliora di 2,7 punti percentuali il risultato che aveva ottenuto nella precedente tornata elettorale (il peggiore di sempre). Perdono consensi invece i postcomunisti della Linke e i Verdi (questi ultimi ca. un milione di voti in meno), i quali scendono entrambi sotto un risultato a due cifre (rispettivamente 8,6% e 8,4%), mentre la Fdp (4,8%), dopo che nel 2009 aveva ottenuto il suo miglior risultato di sempre (14,6%), rimane per la prima volta fuori dal parlamento (ca. 4,3 milioni di voti in meno), così come l’Alternative für Deutschland (4,7%) e il Partito dei pirati (2,2%).
Più che di «eccezionalismo» è forse opportuno parlare di una «specificità» della politica tedesca che ha tra i suoi elementi distintivi: 1) un sistema di governo efficiente che consente al capo dell’esecutivo – il quale come vuole la consuetudine è anche il Presidente del partito di maggioranza – di esercitare pienamente il suo potere di indirizzo politico e anche di raccogliere i principali benefici elettorali attorno a un operato che viene valutato positivamente; 2) una crescente fiducia da parte dei cittadini nell’azione di governo che la Merkel ha saputo riconquistare anche e soprattutto grazie alla buona gestione della crisi finanziaria ed economica.
È proprio nella combinazione di questi due elementi che va colto il significato e anche la vera novità delle ultime elezioni tedesche. Angela Merkel è stata premiata, al di là di ogni più rosea aspettativa, anche e soprattutto perché è riuscita a dimostrare di avere un’idea sufficientemente realistica e adeguata per gli interessi dei cittadini tedeschi di come si governano i problemi connessi alla crescente integrazione dei mercati capitali, anche se non vanno comunque sottovalutati i 2 milioni di voti presi dall’unica formazione dichiaratamente anti-euro (l’Alternative für Deutschland).
L’«europeizzazione» del voto tedesco non significa però che l’annoso problema del deficit democratico in Europa sia in via di soluzione. Anzi, per certi aspetti il problema risulta aggravato dalla percezione sempre diffusa che la ricetta di Frau Merkel adottata dall’Europa stia portando grandi benefici a Berlino, ma molti danni agli altri paesi meno virtuosi.
È questa la sfida principale che attende la Cancelliera e il nuovo governo (a questo punto molto probabilmente di Grande coalizione) che verrà da lei presieduto nei prossimi quattro anni: dimostrare di non avere solamente le carte in regola per aspirare alla leadership in Europa, ma anche la legittimazione internazionale per esercitarla.
Nel 1960 Konrad Adenauer ammise che era stato grazie alla sua immagine di interlocutore affidabile presso gli alleati che era potuto divenire lo statista che era diventato, vincendo per tre volte consecutive le elezioni politiche. Resta ora da vedere se anche Angela Merkel coltiverà l’ambizione di essere ricordata non solo come uno dei cancellieri più longevi nella storia della Repubblica Federale, ma anche come una statista di levatura internazionale.
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