Il debito impagabile e il rigore della memoria. Il pragmatismo rigorista della cancelliera Merkel, rispetto all'attuale congiuntura economica, è ben più di una semplice tecnica di governo volta a far fronte allo stato eccezionale di crisi in cui si trovano i Paesi dell'Unione. Esso mostra, piuttosto, le radici politiche di una visione di fondo: l'Europa in funzione e come funzione della Germania e dei suoi interessi. Una collateralità da sopportare, minimizzandone le ricadute sulle strategie della Repubblica federale. Non si tratta di una sensibilità personale, ma di una condizione strutturale della cultura politica tedesca odierna. Nel governo della Merkel non siede infatti che un solo europeista in senso proprio, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, non per niente successore auspicato alla guida dell'Eurogruppo dall'attuale presidente dimissionario Junker.
Per quanto riguarda i partiti fuori dalla coalizione di governo, nessuno pensa all'Europa come tema strategico e tutti preferiscono concentrarsi sulle elezioni politiche a livello di Länder attualmente in corso – quelle dello scorso 13 maggio, nel Nordrhein-Westfalen, avranno ben più di un valore semplicemente sintomatico per gli equilibri berlinesi.
Ma questo è anche lo specchio di un Paese. Pochi immaginano l'Europa come un'opportunità da non perdere, costi quel che costi. Eppure qualche sprazzo all'orizzonte sembra aprirsi. La necessità di risolvere il più rapidamente possibile la crisi istituzionale creatasi per le indagini giudiziarie che hanno coinvolto l'ex presidente Christian Wulff non ha lasciato alla Merkel altra possibilità che convergere, ad ampia maggioranza, su quello che nel 2010 era stato il candidato dell'opposizione: Joachim Gauck. Senza invadere spazi costituzionali e politici che non sono di sua competenza, con stile e forza testimoniale, nella nuova funzione di presidente federale, Gauck sembra profilare il quadro di un europeismo tedesco come un dovere cui la Germania non si può sottrarre; offrendo così una sponda a Schäuble (per quanto essa sia più generazionale che di visione politica), e spezzando (con discrezione) il monologo della Merkel. Se ne trovano tracce non casuali nei due discorsi a più alto significato simbolico e di rappresentanza istituzionale - quello tenuto dopo il giuramento di insediamento a presidente della Repubblica federale tedesca davanti alla Bundesversammlung (Berlino, 23 marzo); e quello del 5 maggio a Breda, nel corso della visita ufficiale in Olanda, in occasione della celebrazione nazionale del «Giorno della liberazione».
Se è mai possibile definirlo tale, Gauck rimane comunque un intellettuale atipico; segnato dalla storia e dalle esigenze degli eventi che ha dovuto attraversare, più che dall'accademia e dalle alchimie di discussioni raffinate. In larga misura, il mondo intellettuale tedesco sembra invece rimanere distante, quasi estraneo, rispetto all'urgenza di portare a termine il progetto europeo. Anche il recente manifesto L'Europa siamo noi per la ricostruzione dell'Europa dal basso, lanciato da Ulrich Beck e Daniel Cohn-Bendit (pubblicato in Germania da “Die Zeit” e sostenuto dall'Allianz Kulturstiftung), non ha mosso più di tanto gli animi degli intellettuali tedeschi. Contribuire a immaginare la costruzione di una società civile europea è sicuramente uno dei compiti che spetta agli intellettuali del nostro continente; ma sarebbe un interesse che non dovrebbe sfuggire né all'economia né alla politica. Davanti a questa inerzia, Habermas sta tornando con insistenza sempre maggiore sul tema dell'Europa come democrazia sovranazionale, delineando procedure politiche e figure costituzionali che consentano e introducano a questo passaggio decisivo per l'Unione. Egli va così chiudendo la sua attività di filosofo e la sua avventura intellettuale annodandole nel corpo unico di una confessione politica per l'architettura futura di un'Europa compiuta.
Di un decennio più giovane di Habermas, Gauck si trova ora davanti alla scelta di come realizzare il proprio incarico istituzionale: o nella forma di una celebrazione di ciò che egli è stato (cosa che non dispiacerebbe alla Merkel); o come inquadramento dell'idealità che lo ha mosso nell'attuale congiuntura europea (rimanendo quello che è stato, un attivista). Insomma, tra una Germania che può tornare a specchiarsi tutta in se stessa dopo la caduta del Muro e una Germania capace di apprendere cosa voglia dire essere una parte fondante dell'Europa - non per debolezza, ma nella forza e per convinzione. Nei discorsi di Berlino e Breda, Gauck ha gettato le basi per la costruzione di un nuovo europeismo tedesco.
Due le coordinate abbozzate. L'inusitato di un inserimento europeo della Germania rimane un debito costantemente aperto, impagabile; il «peso della colpa e della storia» non si lascia cancellare col semplice passare del tempo, ma rimane un'esposizione che non può essere appianata. Poter essere nell'Europa rappresenta per la Germania un «dono» e una «fiducia accordata» (J. Gauck, Brema) che non devono essere disattesi. Il secondo lato di questo lavorio sulla coscienza europea della Germania s'incentra sull'inesauribile dovere tedesco di una rigorosa memoria critica della propria storia all'interno dell'Europa. Il rigore finanziario senza un rigore della memoria si svuota di ogni credibilità civile e politica. «Viviamo ormai in uno Stato [...] che si lascia definire sempre meno dall'appartenenza nazionale dei suoi cittadini, ma che si caratterizza per la loro appartenenza a una comunità politica ed etica di valori; in uno Stato in cui l'essere insieme si plasma sempre più intorno alla ricerca di ciò che è comune da parte delle differenze che lo compongono: in questo nostro Stato nell'Europa. E troviamo ciò che ci accumuna in questo nostro stato nell'Europa, nella quale vogliamo vivere in libertà, pace e solidarietà» (J. Gauck, Berlino). L'immaginario di un pastore luterano come coscienza critica dell'attuale deficit europeista del governo tedesco, il potere debole della parola alla prova dell'efficienza dei numeri. Ma l'Europa ha bisogno anche di immaginazione, non solo di tecnocrazie.
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