I volti noti del cambiamento. Se la tripla tornata elettorale presidenziale, parlamentare e municipale di domenica scorsa rappresenterà un giro di boa per la Serbia, lo stabilirà il ballottaggio presidenziale del prossimo 20 maggio. A Belgrado, il testa a testa tra il riformista e presidente della Repubblica dimissionario Boris Tadić e il suo contendente di sempre, l’ex ultra-nazionalista Tomislav Nikolić, è considerato l’appuntamento chiave per tastare il polso a un Paese diviso tra entusiasmi europeisti, derive identitarie e nazionaliste e suggestioni crescenti dell’anti-politica.
L’incertezza del risultato presidenziale deve fare i conti anche con il dato più rilevante emerso dalla consultazione parlamentare, quel 24% di consenso assegnato al Partito progressista serbo (Snp) di Nikolić che di fatto si conferma come prima forza parlamentare, seguito dal 22,3% del Partito democratico (Ds) di Tadić. Un risultato che implica due aspetti. Il primo: nessuno di questi due partiti sarà in grado di governare da solo. Il secondo: la sindrome del gran-coalizionismo rischia di farla da padrone, rendendo determinante, in particolare, l'appoggio del Partito socialista serbo (Sps) del ministro dell'Interno uscente Ivica Dačić, che con il suo 14,7% è di certo il vincitore de facto di questa tornata parlamentare.
Dačić - l'erede ripulito del partito di Milošević, ritornato in auge nel 2008 per permettere la sopravvivenza all’esecutivo Ds - gongola e avverte: «Parleremo prima con i democratici, per ora nostri alleati, ma non esiteremo ad ascoltare le proposte dei progressisti di Nikolić». Dichiarazione sibillina che la dice lunga su quanto la situazione sia ancora in evoluzione. Intanto, a fronte di un Tadić che posticipa al secondo round delle elezioni presidenziali le negoziazioni per la formazione del prossimo governo, c’è un Nikolić che scalpita e si dice pronto a incontrare il leader Sps già nei prossimi giorni.
Insomma, Tadić è avvisato. Il ballottaggio di fine maggio potrebbe non rivelarsi un déjà vu di quello trionfante del 2008. In Serbia - complice l’effetto domino della crisi economica globale - la disillusione e lo scontento nei confronti della classe politica sono cresciuti in modo esponenziale nei quattro anni di gestione Ds. Basta passare in rassegna le accuse rabbiose che circolano nei social network o le voci provenienti dalle periferie urbane pullulanti di fermenti nazionalisti e anti-sistema per capire che il sistema Tadić potrebbe rivelarsi tutt’altro che stabile.
Sebbene il recente ottenimento dello status di Paese candidato alla Ue e le riforme varate in campo giudiziario e nella lotta alla criminalità organizzata rappresentino l’asso nella manica del suo mandato, adesso l’eroe della traversata europea, il compassato primo presidente non comunista della Serbia, che appariva così distante dall’etno-kitsch post-jugoslavo, deve fare i conti anche con la perdita di credibilità di un partito di governo sospettato di corruzione e di uso privatistico dei beni pubblici. Accuse che alimentano l’avanzata dei sentimenti populisti e anti-casta catalizzati da Nikolić.
Ex numero due del Partito radicale serbo (Srs) di Vojislav Šešelj - attualmente sotto processo al Tribunale penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra - e habitué della pesca dei voti di protesta, Nikolić è il volto (vecchio) del nuovo nazionalismo "soft" serbo. Sebbene sull’indipendenza del Kosovo abbia sciorinato - in convergenza con Tadić - il solito stentoreo discorso sull’integrità territoriale della Serbia, all’Europa “Toma” il carismatico strizza l’occhio. Lo slogan «Promjene!» (cambiamenti), utilizzato in questa campagna elettorale dal suo partito, la dice lunga sul maquillage in atto in seno all’Sns. Parola d’ordine: pulizia. Passano gli anni, cambiano i protagonisti, ma la lustracija - l’epurazione di eredità politiche e protagonisti scomodi, tanto in voga nella prima fase del processo di democratizzazione serbo - resta. E così, messo in sordina il repertorio panslavista, i progressisti ammiccano a Bruxelles e puntano a strappare ai Ds lo zoccolo duro dell’elettorato inneggiando alla lotta contro la corruzione.
Intanto, mentre la partita tra europeisti convinti ed europeisti d’accatto continua, la Serbia deve fronteggiare anche la recrudescenza delle derive ultra-nazionaliste extra-parlamentari. Quelle dei duri e puri appena espulsi dal Parlamento grazie alla soglia di sbarramento del 5%, che considerano la svolta di Nikolić un tradimento e che animano un pulviscolo di movimenti di ispirazione neo-fascista. Snp 1389, Dveri, Obraz, Nacionalni Stroj, bandito nel 2010 eppure ancora attivo, sono soltanto alcune delle formazioni eversive che raccolgono proseliti tra i grandi beffati della turbo-politica serba del nuovo millennio: quei giovani che si trovano a fronteggiare un Pil in caduta libera e un tasso di disoccupazione al 24%.
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