La prima, secondo Trump, «settimana incredibile» di febbraio ha registrato tre avvenimenti che hanno accelerato la fase decisiva della campagna presidenziale: la fine dell’impeachment, il discorso di Trump sullo stato dell’Unione e la prima primaria democratica nello Stato dell’Iowa.Il risultato è un aggravarsi parossistico della polarizzazione politica, la delegittimazione reciproca tra democratici e repubblicani e la ribadita fine del pragmatismo, un tempo vanto della politica del Paese. Lo scorso 5 febbraio il Senato giudicante a maggioranza repubblicana ha proclamato in tempi ristrettissimi l’innocenza del presidente. Fin dall’accesso di Trump alla presidenza nel 2017 la sua correttezza politica e costituzionale è stata messa in dubbio. In particolare, la relazione finale della Commissione Mueller sulle interferenze russe nelle presidenziali del 2016 evitò di incriminare il presidente di ostruzione della giustizia, competenza riservata al Congresso, ma sostenne che Trump avrebbe potuto essere processato una volta scaduto il mandato da presidente.
Riconquistata la maggioranza alla Camera nel 2018, fin dall’inizio diversi membri della sinistra democratica erano stati favorevoli al processo, ma la maggioranza moderata guidata dalla presidentessa della Camera, Nancy Pelosi, temeva un’eco di opinioni controproducente. Dallo scorso settembre tuttavia erano emerse testimonianze di informatori riservati (whitleblowers), autorevoli diplomatici, e la pubblicazione della telefonata di Trump al presidente Zelenskiy, che certificavano che Trump aveva subordinato aiuti militari all’Ucraina e un’inchiesta sulle attività in quel Paese di Hunter Biden, figlio di Joe Biden, probabile avversario alle elezioni di novembre.
A questo punto l’indignazione democratica divenne incontenibile (malgrado una minoranza che voleva invece insistere sulle proposte sociali ritenute più elettoralmente efficaci): Trump non sarebbe certo stato rimosso, ma le malefatte presidenziali lo avrebbero screditato sia durante il processo sia, poi, nella campagna elettorale. I repubblicani sono stati compatti nella difesa di Trump: il presidente non ha obbedito a vantaggi personali e comunque non si tratta di un’accusa da impeachment, ma solo di una speculazione politica. Il Senato ha impedito nuove testimonianze, soprattutto quella a sorpresa dell’ex consigliere della Sicurezza nazionale John Bolton che, in un libro in pubblicazione, rivelava che Trump gli aveva confermato la pressione sugli ucraini. Il presidente è stato dichiarato innocente e ha prontamente lanciato proclami trionfalistici (e vendicativi) di vittoria al grido di «president forever».
La vicenda impeachment ha radicalizzato lo scontro istituzionale, non solo tra la maggioranza democratica alla Camera e la presidenza, ma anche tra la Camera e il Senato (e tra i due partiti), che si lanciano insulti al limite del diniego di legittimità. In entrambe le Camere i voti sull’impeachment hanno seguito un rigido schieramento di partito e il fatto che, dopo un singolo precedente storico (il presidente Andrew Johnson nel 1868), in vent’anni (1998-2020) due presidenti, Clinton e Trump, siano processati, suggerisce che l’impeachment risente della radicalizzazione e dell’incomunicabilità del cosiddetto «governo diviso».
Le proclamazioni trumpiane di vittoria sono state anticipate dal discorso presidenziale sullo stato dell’Unione al Congresso di martedì 4 febbraio, tra l’entusiasmo dei repubblicani al grido di «altri quattro anni» e Nancy Pelosi, terza carica dello Stato, che strappa platealmente il testo presidenziale, definito una somma di «insopportabili menzogne».
Nel discorso intitolato «Il grande ritorno dell’America» Trump si è vantato di aver sconfitto in tre anni «la mentalità del declino», riportando il suo Paese al primato
Nel discorso intitolato «Il grande ritorno dell’America» Trump si è vantato di aver sconfitto in tre anni «la mentalità del declino», riportando il suo Paese al primato interno e internazionale. È stato un intervento tutto elettorale, volto a consolidare il proprio seguito, a promettere feroci vendette ai democratici e a cercare di allargare la propria base di voti. Il tono trionfale e fattualmente approssimativo ha raggiunto il culmine nel rivendicare i successi economici: in effetti l’economia va bene, in gennaio ha creato 225.000 nuovi posti di lavoro con un tasso di disoccupazione bassissimo al 3,6%. I critici sottolineano che la buona crescita risale già a Obama, che i nuovi posti di lavoro sono in larga maggioranza a bassi salari, il cui incremento al 3,1% in gennaio è nettamente deludente.
Tuttavia il successo economico avvantaggia sempre il presidente in carica. Trump lo definisce un «boom dei colletti blu», dato che gli stati operai del midwest, dove conquistò la presidenza nel 2016 con maggioranze risicatissime, potrebbero essere nuovamente decisivi alla rielezione quest’anno. Tentando di allargare la sua base elettorale, egli ha sottolineato, con riferimenti etnico-razziali a lui inusuali, quanto della prosperità si siano avvantaggiati i neri, i latinos e gli asiatici, presentando sul podio la famiglia di un vecchio militare afro-americano.
Pur restando statisticamente un presidente impopolare, Trump gode adesso di un giudizio di pubblico in crescita. Secondo Gallup ha toccato il 49% dei favori, il più alto dalla sua ascesa al potere, e secondo il sito d’opinione Fivethirtyeight il suo apprezzamento pari a circa il 44% è al margine superiore della sua usuale banda di oscillazione tra il 40 e il 45%. Quali fattori contribuiscono di più alla maggiore popolarità del presidente e quanto sono stabili? L’economia resterà certamente una sua potente risorsa elettorale e un presidente in carica con un 50% di popolarità e un’economia fiorente sarebbe un fortissimo candidato alla rielezione.
Pur restando statisticamente un presidente impopolare, Trump gode adesso di un giudizio di pubblico in crescita
Per quanto riguarda l’impeachment invece, l’autorevole commentatore politico Michael Tomasky sostiene con altri che esso ha avuto e ha un impatto di opinione trascurabile: la polarizzazione fa sì che due terzi degli americani abbiano già deciso il loro atteggiamento a favore o contro Trump qualunque cosa accada e l’ultima quota ha seguito poco l’impeachment in televisione, ritenendolo uno scontro tra politici professionisti con un risultato scontato e uno spreco di soldi. Uno studio sulla Florida, uno Stato con sei milioni di elettori «in bilico» tra i partiti, ha verificato lo scarso coinvolgimento.
In realtà l’attuale salute elettorale di Trump dipende non solo dalle sue vittorie ma anche dal marasma dei democratici. La primaria in Iowa è stata un disastro perché il ritardo dei risultati, malgrado le pretese di frontiera tecnologica, ha proiettato non solo un’immagine di incompetenza, ma ha anche rinverdito i sospetti di intrallazzi soprattutto contro la candidatura «socialista» di Bernie Sanders, che già nel 2016 avevano punteggiato la campagna elettorale. Soprattutto, malgrado il successo di Sanders stesso e del giovane ed incisivo Pete Buttigieg in Iowa, il quadro degli aspiranti democratici resta confuso.
Le primarie avranno una svolta quando entreranno in gioco il voto etnico e le grandi città, ma nessuno per ora sembra in grado di gettare ponti tra le componenti di un'ipotetica coalizione democratica, dal voto etnico-razziale, alla borghesia dei suburbi, compresi i repubblicani stanchi dello stile di Trump, ai giovani e ai giovani adulti delle città, agli operai e ai proletari che il partito dovrebbe riconquistare.
Il dibattito televisivo tra gli aspiranti, subito dopo il risultato dello Iowa, ha visto flebili tentativi di unità in mezzo a una conflittualità crescente, che minaccia lo slittamento in avanti, oltre la primavera, di un candidato democratico credibile, per arrivare nel peggiore dei casi a una convenzione estiva bloccata. Il regalo più grande che i democratici potrebbero fare alla popolarità di Trump e alle sue chances di rielezione.
Riproduzione riservata