Bulgaria sud-orientale, confine con la Turchia. Due linee di filo spinato si dipanano lungo le alture boscose, correndo parallele verso l’orizzonte. Una è arrugginita e dismessa: eco lontana della cortina di ferro, il suo scopo era impedire – anche a costo della vita – la fuga dal blocco sovietico. L’altra, appena innalzata e scintillante sotto il sole, blocca il passaggio in direzione opposta: è la “barriera anti-migranti”, inaugurata dal governo di Sofia per impedire l’arrivo di rifugiati e richiedenti asilo, soprattutto siriani, afgani e iracheni, arrivati a migliaia a partire dal 2013. Se c’è un’immagine, una metafora paradossale dei nuovi muri che crescono nei Balcani, è proprio qui che bisogna cercarla, in questo angolo periferico e silenzioso di Unione europea.
Venticinque anni fa cadeva il muro di Berlino. Lo slogan che attraversava – travolgente – il Vecchio continente era: “mai più barriere”. Oggi però anche quel sogno sembra malinconicamente arrugginito. Si moltiplicano i nuovi muri lungo la cosiddetta “rotta balcanica”, che partendo dalla Turchia porta all’Europa centrale attraverso la penisola.
E non solo in Bulgaria: la Grecia aveva aperto le danze alcuni anni prima, issando una rete di dodici chilometri, sempre al confine con la Turchia. Nel pieno dell’emergenza rifugiati, che ha toccato il suo picco nel 2015, l’esempio è stato seguito dall’Ungheria, che in tempi record ha srotolato 175 chilometri di filo spinato al suo confine meridionale con la Serbia.
A settembre di quest’anno anche il governo macedone, travolto dall’incremento esponenziale del numero di rifugiati in transito verso i Paesi dell’Europa ricca – Germania in testa – ha preso in considerazione l’idea di sigillare il confine con la Grecia, teatro durante l’estate 2015 di drammatici scontri tra migranti e forze di polizia locali.
Per i Paesi dell’Europa sud-orientale ricorrere a reti e filo spinato è una scelta al tempo stesso razionale e al limite del paradosso, che mescola timori per la propria sicurezza nazionale, scarsa o nessuna esperienza recente nella gestione di flussi migratori – soprattutto nel ruolo scomodo di Paesi di transito –, paure diffuse sull’impatto del fenomeno su economie fragili, reazione a un atteggiamento strumentale e poco solidale da parte dei Paesi ricchi dell’Europa occidentale, meta e obiettivo finale per la stragrande maggioranza dei rifugiati.
Insicurezza, quindi. Questo il sentimento alla base del sorgere di nuovi muri nei Balcani. Un’insicurezza che ha dimensione nazionale, coltivata dalle élite locali in cerca di consensi facili, ma è anche un riflesso di quella – più ampia e profonda – che sembra stringere tutta l’Unione europea, incapace di pensare e agire in modo collettivo, e tentata da un distruttivo gioco allo scaricabarile sulle politiche di accoglienza e integrazione. Sulla questione dei rifugiati e richiedenti asilo, almeno fino ad oggi, l’Unione europea semplicemente non c’è.
Per i governi di molti Paesi balcanici, innalzare muri è la risposta più istintiva e immediata per tranquillizzare le proprie opinioni pubbliche, allarmate proprio dallo schema di lettura delle autorità, poi rimbalzato dai media, che legge negli uomini, nelle donne e nei bambini in fuga una minaccia per la sicurezza nazionale, molto prima che una crisi umanitaria. Una minaccia in termini di costi economici, con l’obiettivo di raggiungere gli standard dell’Europa ricca che si fa sempre più lontano – ma anche di stabilità interna, visto che l’appartenenza religiosa della maggior parte dei rifugiati (Islam) viene vissuta come problematica, e in grado di risvegliare gli antichi timori verso un mondo – rappresentato storicamente dall’Impero ottomano – ancora vissuto come ostile e aggressivo. Anche la recente trasformazione di Paesi come Ungheria, Bulgaria e Romania in “confine esterno” dell’Ue, sembra aver contribuito alla creazione di una mentalità da “guardiani di frontiera”, spesso incoraggiata attivamente dai Paesi più ricchi dell’Unione. Non a caso, Paesi ancora lontani dalla prospettiva dell’ingresso nell’Ue come Serbia e Macedonia sembrano meno solerti ed entusiasti nell’innalzare barriere.
In un contesto di mancata solidarietà, issare muri è la strategia più economica per tirarsi fuori dall’occhio del ciclone. Reti e filo spinato non possono fermare le centinaia di migliaia di persone in marcia: di questo tutti sembrano essere consapevoli e l’esperienza sul campo degli scorsi anni ha confermato tutti i limiti, di efficacia oltre che morali, di questa strategia. Sono strumenti a basso costo in grado di spostare la rotta di transito, e scaricare così il peso dell’emergenza sui propri vicini, in attesa di tempi migliori.
Da questo punto di vista, la costruzione della barriera al confine bulgaro-turco, cominciata due anni fa e oggi in fase di completamento, sembra essere stato un “buon investimento” per il governo di Sofia. Messa in profonda crisi dall’arrivo di poco più di diecimila profughi nel 2013, oggi la Bulgaria vede un flusso enormemente più numeroso e drammatico scegliere la vicina Macedonia come porta d’ingresso al “sogno chiamato Europa”. Il problema, naturalmente, non è stato risolto: ora però interessa soprattutto i Paesi vicini.
[Questo articolo è frutto della collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e rivistailmulino.it]
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