Le elezioni irachene. Slittate di una giornata rispetto al calendario ufficiale per una disputa sulla ripartizione territoriale dei seggi (fatto che aveva già ritardato l’approvazione definitiva della legge elettorale), le elezioni legislative irachene, che si tengono il 7 marzo, decideranno dell’assegnazione dei trecentoventicinque scranni del Consiglio delle rappresentanze dell’Iraq, il Parlamento nazionale. Peraltro le norme che regolano la tornata elettorale, approvate il dicembre scorso dalla Camera uscente in ultima bozza - dopo vivaci confronti - con il voto unanime dei centotrentotto deputati presenti (sui duecentosettancinque aventi diritto), sono il risultato di un complesso sforzo di mediazione diplomatica espresso sia dall’Onu che, soprattutto, dagli Stati Uniti.
La collaborazione che ha portato al licenziamento di una legge ritenuta dignitosa e adeguata alle necessità del paese è di per sé già un successo rispetto ad una situazione, quella degli ultimi anni, dove il caos ha spesso dominato su tutto. I suoi contenuti non sono molto diversi da quelli di una precedente versione, poi bocciata in quanto non avrebbero garantito una rappresentanza adeguata agli iracheni che vivono all’estero. Per non scontentare quindi sciiti, sunniti e curdi, le tre maggiori etnie del paese, nel testo definitivo i seggi in palio sono stati aumentati in modo da restituirne una parte alle provincie a maggioranza sunnita e dare garanzie all’etnia curda, concentrata nelle tre provincie (Irbil, Dohuk e Sulaimaniya) che compongono la loro regione autonoma. Trecentodieci seggi saranno distribuiti tra le provincie e quindici saranno riservati alle minoranze, ossia cristiani, yazidi, sabei-mandei, e shabak. L’obiettivo più importante, ora, è quello di segnare questo passaggio politico come il primo, tangibile e irrevocabile segno di una trasformazione democratica dell’Irak postbaatista. Gli americani ne hanno tanto più bisogno dal momento che l’Amministrazione Obama ambisce dichiaratamente al disimpegno militare dal paese. Se le elezioni dovessero svolgersi senza problemi, i soldati statunitensi potrebbero quindi fare presto ritorno a casa. Ma se dovessero ripetersi gli episodi di violenza che hanno causato la morte di migliaia di iracheni nel 2006-2007, allora Obama potrebbe essere costretto a rivedere i suoi piani. Una nuova ondata di violenze, tra l'altro, sarebbe cosa tutt'altro che bene accetta da un presidente Usa che ha fatto del tema della lotta alla disoccupazione l’obiettivo in cima all'agenda per l’anno corrente.
L'Unione europea schiererà centoventi osservatori, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per monitorare il corretto svolgimento delle operazioni. Inutile dire che, malgrado l’impegno devoluto per il buon esito della tornata elettorale, vi sono timori e perplessità sulla loro regolarità, soprattutto in alcuni dei distretti in cui è stato suddiviso l’intero territorio nazionale, laddove il ripetersi degli atti di terrorismo, ma anche le oggettive difficoltà da parte delle autorità a controllare l’insieme delle attività legate al voto, potrebbero in parte pregiudicare l’esito delle medesime. Peraltro si va alle urne in un momento in cui l’Iraq ha visto diminuire gli atti di violenza che, negli ultimi anni, l’hanno sconquassato alle fondamenta, benché negli ultimi giorni ben centocinquanta cittadini irakeni abbiano ancora perso la vita in una serie di attentati. Il premier Nuri al-Maliki, al riguardo, ha promesso una piccola rivoluzione ai vertici delle forze di sicurezza del paese. Alle elezioni di domenica partecipano sei grandi gruppi: la State of Law Coalition del premier Nuri al-Maliki, di origine sciita, che è riuscito a raccogliere anche l’adesione di esponenti sunniti; una lista laica, l’Iraqi National Movement o Iraqiya List, dell'ex premier Ayad Allawi, anch’egli sciita; la National Iraqi Alliance di un altro ex Primo ministro sciita, Ibrahim al-Jaafari; the Kurdistan Alliance, di matrice curda; l’Iraqi Islamic Party, di osservanza sunnita; i Sunni Awakening Movements, conosciuto anche come «Figli dell’Iraq» che nasce da una federazione di gruppi a base territoriale.
Dopo la conclusione del lungo periodo di potere di Saddam Hussein la politica irakena ha rivestito di nuovo gli abiti delle vecchie appartenenze etniche, ovvero delle solidarietà claniche, una costante nelle «democrazie» mediorientali. Con tutta probabilità il voto fotograferà un paese diviso, dove allo sforzo di dotarsi di nuove istituzioni comuni si affianca la rivendicazione di antiche fedeltà locali.
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