In questi giorni sta facendo il giro del mondo la notizia che si sono chiuse entro casse di legno alcune statue classiche di figure ignude per non offendere il presidente dell’Iran, Hassan Rohani, durante una sua visita ai Musei Capitolini. Un fatto certamente irrituale, che riporta alla mente uno storico saggio di Edgar Wind, Arte e anarchia, e il suo parlare d’un qualcosa che, in Occidente, si va sempre più dimenticando. Cioè che per millenni l’incontenibile forza dell’arte è stata una faccenda socialmente scomoda, anzi pericolosa. Da qui già quattro secoli prima di Cristo il “sacro timore” di Platone per l’arte, cantando l’ateniese con molta partecipazione la divina pazzia dell’artista. Sempre però guardando a entrambi con un occhio estremamente sospettoso. Ad esempio, per il filosofo greco l’arte mimica era una pratica estremamente pericolosa, così da proporre una legge per la quale si poteva parlare del male soltanto in terza persona, perché gli spettatori non ne venissero contagiati; del resto, mai sangue vivo in scena nella tragedia greca.
Un sospetto, quello di Platone, esteso perfino ai giochi dei bambini che, per lui, avrebbero dovuto svolgersi sotto la sorveglianza di un magistrato. I giochi sono infatti uno strumento fondamentale nella formazione del carattere, perché è attraverso l’imitazione degli altri che tutti noi diventiamo quel che siamo. Che è poi quanto disse (l’esempio è di Wind) tre secoli fa James Harris: “Noi possiamo fingere un piacere finché il piacere arriva, e accorgerci che ciò che cominciò come finzione finisce come realtà”; né aggiungo della devastante influenza, oggi, della televisione commerciale e dell’uso improprio di internet tanto sui bambini, come sugli adulti e perfino sugli anziani.
Se accettiamo queste osservazioni – e sarebbe difficile negare che i giochi innocenti non sono sempre innocenti e che la finzione può a volte mettere radici nella realtà – le conseguenze sono l’essere costretti a considerare l’arte con la stessa serietà di Platone, per il quale uno Stato ideale, ogni volta che un artista voglia entrare in una città, dovrà impedirglielo: “Se un tale uomo viene da noi per mostrarci la sua arte, ci metteremo in ginocchio davanti a lui, come davanti a un essere raro e santo e dilettevole; ma non gli permetteremo di rimanere tra noi. L’ungeremo con la mirra e gli porremo un serto sulla testa, e lo manderemo via, in un’altra città”. Ciò nella convinzione – Platone lo dice chiaramente – che il grande male “scaturisce da pienezza di natura, mentre le nature deboli sono difficilmente capaci di molto bene o di molto male”.
Platone che, come tutti sanno, vide le arti plastiche e la poesia raggiungere la perfezione e la massima eleganza nello stesso momento in cui vedeva disintegrarsi lo Stato, sentendo sulla sua stessa persona che tra quei due processi doveva esserci una relazione profonda. Così che egli si comporta come il medico che, diagnosticando una malattia di cui non si conosce la cura, mosso dalla disperazione e dalla pietà verso il malato, gli prescrive un rimedio inefficace: nel caso, nascondere la morte dello Stato ateniese con la censura. Quel che non farà Hegel, vaticinando la morte dello Stato pre-napoleonico in forma di fine della Storia e fine dell’Arte, scrivendo che in un’era dominata dalla scienza la gente non avrebbe smesso di dipingere, né di fare statue, né di scrivere poesie, né di comporre musica. Ma che non bisognava per questo ingannarsi: “Per quanto splendide le effigi degli dèi greci ci possano sembrare, qualunque sia la dignità e la perfezione che possiamo trovare nelle immagini di Dio Padre, di Cristo e della Vergine Maria, tutto ciò è inutile: le ginocchia non le pieghiamo più”.
Così che le casse dei Capitolini, nell’oscurare le comunque mai innocenti nudità di alcune statue antiche, da una parte riconoscono come ancora l’arte possa generare un “sacro timore”; dall’altra ribadiscono come l’Occidente abbia da molto tempo aperto le dighe di un’immaginazione autistica le cui acque stanno ormai invadendo tutto. L’arte del passato è oggi nei fatti equiparata a un qualsiasi fregaccio tracciato a caso su una tela, o a un pezzo di ferro arrugginito esposto a caso in una piazza. Il sacro timore non è più tra noi. A tal punto che nulla ci sarebbe stato di strano se quelle casse fossero state una performance dell’artista contemporaneo di turno.
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