Questo articolo fa parte dello speciale Società migranti
Dall’inizio della pandemia di Covid-19, abbiamo osservato la crescente stigmatizzazione nei confronti dei cittadini stranieri come veicolo di contagio, che si tratti di residenti in Italia da anni o di persone appena salvate dal naufragio al largo delle coste del Mediterraneo. Un processo che ha investito anche le politiche migratorie europee, traducendosi in un aumento della violenza istituzionale al confine – come nel caso dei respingimenti di marzo 2020 sul confine turco-greco lungo il fiume Evros, dove la polizia ha sparato contro i migranti che tentavano di guadagnare l’altra sponda – e nell’isolamento coatto delle persone entrate irregolarmente sul territorio europeo. Questa stigmatizzazione va inquadrata nella costruzione di una narrazione emergenziale la cui logica da un lato tratta il fenomeno scatenante come imprevedibile, un’eccezione al normale scorrere temporale degli eventi; dall’altro impone l’urgenza di un intervento. A ben vedere, tale logica caratterizza la gestione migratoria europea da molto prima dell’insorgere della pandemia.
Approccio hotspot. Gli hotspot, «punti di crisi», e le misure di incanalamento dei flussi a essi correlate istituiti a partire dall’Agenda europea sulla migrazione del maggio 2015 rappresentano il fulcro delle politiche confinarie europee per la gestione dei movimenti migratori contemporanei non regolarizzati e incarnano questo frame discorsivo emergenziale. Sono definiti infatti come «una zona di frontiera esterna [dell’Ue] interessata da una pressione migratoria sproporzionata». Spazi incentrati sull’intervento immediato, tecnico e rimossi dal dibattito politico.
Gli hotspot, negli anni dislocati in Italia e in Grecia, incorporano due funzioni primarie: la selezione e il contenimento delle mobilità non autorizzate. Il filtraggio al confine avviene attraverso le procedure di screening in cui le persone vengono prima identificate e fotosegnalate e poi interrogate sulla loro presenza irregolare in territorio europeo. Sulla base di questo possono essere avviate alle procedure di accoglienza come richiedenti asilo o di rimpatrio come «migranti economici». Da quanto abbiamo potuto raccogliere nella nostra ricerca sul campo, la selezione avviene primariamente secondo il criterio della nazionalità attribuita. In questo giocano un ruolo centrale gli accordi bilaterali stipulati tra il singolo Stato membro europeo e Paesi terzi in materia di rimpatri accelerati. Una prassi confinaria che di fatto mette fortemente in discussione il diritto individuale di ciascuno a chiedere asilo.
La funzione contenitiva non si manifesta solo nella materiale impossibilità di potere uscire dalla struttura, ma anche dalla collocazione geografica della stessa: un confine o meglio una soglia, cioè uno spazio che è territorio di uno Stato ma ne eccede l’ordinamento giuridico. Le strutture sono infatti dislocate ai confini esterni dell’Unione e sono inaccessibili a chiunque non abbia un’autorizzazione – nel caso italiano, del ministero dell’Interno. A questo si aggiunge la dimensione insulare, come nel caso di Lampedusa o di Lesbo, dove la morfologia dello spazio viene utilizzata in modo funzionale a garantire il contenimento.
L’implementazione dell’approccio hotspot ha seguito le necessità strategiche del regime confinario europeo. In Italia l’elemento predominante è quello della selezione, mentre in Grecia si è affermato quello del contenimento. Gli hotspot nelle isole greche vengono utilizzati come luoghi-cuscinetto per limitare i movimenti intraeuropei. In Italia, viene privilegiata la funzione di controllo e filtraggio della mobilità con l’attivazione di fast-track per il rimpatrio, in particolare per i cittadini tunisini.
In piena pandemia, a cinque anni dall’Agenda europea sulla migrazione, il 23 settembre 2020 è stato presentato il pacchetto di norme che compongono il Patto Ue sulla migrazione e l’asilo il cui indirizzo essere rafforzare quanto già visto in termini di selezione e contenimento delle mobilità. In particolare, il pre-entry screening, sulla falsa riga dello screening preliminare già adottato negli hotspot, vuole anticipare e velocizzare l’operazione di selezione delegando ai funzionari di frontiera la distinzione tra «migrante economico» e potenziale richiedente asilo. Tale procedura dovrebbe essere effettuata al confine, in una zona considerata non ancora territorio europeo: uno spazio extra-legale in cui l’ordinamento giuridico viene sospeso de facto, reso inaccessibile a figure terze che possano garantire il rispetto dei diritti individuali dei soggetti.
Le navi quarantena, uno spazio altro: una sorta di confine galleggiante dove i migranti vengono fatti stare per il periodo di quarantena successivo allo sbarco
Navi quarantena. All’interno di questo quadro possiamo inserire l’adozione da parte dello Stato italiano delle navi quarantena, che costituiscono in tutto e per tutto uno spazio altro: una sorta di confine galleggiante dove i migranti vengono fatti stare per il periodo di quarantena successivo allo sbarco. Un dispositivo che sembra poggiare su un discorso di salute pubblica e di emergenza per legittimare un rafforzamento del contenimento e isolamento dei migranti in transito.
A seguito della dichiarazione dello stato di emergenza per l’insorgere della pandemia e del successivo decreto interministeriale con cui le autorità italiane hanno chiuso i porti alle navi di soccorso, il 12 aprile 2020 il Dipartimento di Protezione Civile ha adottato un provvedimento per l’utilizzo di navi per lo svolgimento del periodo di quarantena delle persone salvate in mare.
Queste misure di emergenza prevedono che, dopo il passaggio nell’hotspot di Lampedusa – dove si svolgono le procedure di identificazione e dove si effettua un primo screening sanitario – le persone straniere vengano sottoposte al periodo di isolamento nelle cosiddette navi quarantena o, per alcune eccezioni – vulnerabili e minori stranieri non accompagnati (Msna) – nei centri per la quarantena adibiti all’interno di Cas, Cara, hotspot.
Le navi da crociera usate per la quarantena, noleggiate dal ministero delle Infrastrutture da Gnv Spa e Moby Spa, gravitano attorno ai porti di Lampedusa, Porto Empedocle, Palermo, Trapani, Augusta e Catania. Si tratta di navi impegnate in una continua rotazione in funzione delle operazioni di imbarco e di sbarco dei migranti che iniziano o finiscono il periodo di isolamento sanitario. A bordo, la Croce Rossa Italiana (Cri) è responsabile delle misure di assistenza sanitaria, supporto psicologico e identificazione delle vulnerabilità.
“L’attesa implica la sottomissione: […] essa modifica durevolmente, cioè per tutto il tempo che dura l’aspettativa, la condotta di colui che è sospeso alla decisione attesa” [Pierre Bourdieu]
La permanenza in nave può protrarsi anche oltre i 10 giorni previsti per legge: la possibilità di un contagio, la mancanza di posti disponibili nei centri di accoglienza e le tempistiche amministrative, sono fattori che spesso prolungano questo stato di segregazione. In questo senso, il trattenimento nelle navi quarantena rappresenta una misura che riguarda esclusivamente le persone migranti: posti in uno spazio «fuori» separato dal territorio, il mare, soggetto a temporalità propria, eterodiretta.
Approccio hotspot in mare. Sulla nave quarantena hanno luogo anche altre procedure oltre a quelle strettamente sanitarie. Il «coordinatore migrazioni» presente sulla nave, in contatto con l’Ufficio immigrazione, ha la possibilità di modificare i dati del foglio notizie compilato nell’hotspot di Lampedusa al momento dell’identificazione.
In questo senso, l’arrivo sul territorio europeo è un susseguirsi di operazioni di selezione e filtraggio. In hotspot le persone vengono distinte per nazionalità, età e vulnerabilità: adulti che non presentano situazioni sanitarie critiche vengono normalmente collocati nelle navi quarantena; i Msna o i/le vulnerabili accertati/e sono trasferiti in centri per la quarantena sulla terraferma; in nave quarantena – a seguito della rilevazione di eventuali vulnerabilità – si compie un ulteriore filtraggio.
L’emergere della questione sanitaria nei controlli al confine ha quindi acuito e legittimato ulteriormente i processi e pratiche di selezione e trattenimento extra legali, attraverso il sistematico confinamento in luoghi situati in frontiera, con accertate violazioni della libertà personale e dei diritti fondamentali dell’asilo, dell’informazione, della salute (v. Criticità del sistema navi quarantena per persone migranti: analisi e richieste; in Asgi, Diritti in rotta. L’esperimento delle navi quarantena e i principali profili di criticità, 2021).
È il caso dei cittadini di nazionalità tunisina, soggetti al ricorso sistematico delle procedure di rimpatrio: dallo sbarco, all’hotspot di Lampedusa, alla nave quarantena, al CPR fino all’espulsione, siamo di fronte a un meccanismo quasi automatico, consolidatosi in un anno di implementazione delle navi quarantena.
In questo contesto di sostanziale violazione dei diritti ha avuto luogo la morte di tre cittadini stranieri – Bilal Ben Massaud e i minori Abou Diakite e Abdallah Said - la cui condizione di salute, paradossalmente, si è aggravata durante la permanenza sulla nave quarantena.
Il tempo della quarantena, la segregazione geografica all’interno di spazi di isolamento, le procedure di selezione e incanalamento sono più funzionali al governo delle migrazioni che alla presa in carico sanitaria.
In questo senso, il regime di sorveglianza sanitaria che scandisce le fasi di arrivo, di identificazione e di filtraggio contribuisce non solo alla determinazione dei percorsi amministrativo-giuridici delle persone straniere, ma anche alla semplificazione e alla facilitazione delle procedure di espulsione e di rimpatrio, nonché alla lesione di numerosi diritti fondamentali.
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