Apple non smette di far parlare di sé: accanto alle indiscrezioni sui nuovi dispositivi e non ancora superato il periodo agiografico innescato dalla morte del suo uomo-simbolo Steve Jobs, agli onori delle cronache è salita la visita alle fabbriche cinesi del nuovo amministratore delegato Tim Cook. La vicenda è nota: gli iPhone e gli iPad di casa Apple vengono prodotti dalla Foxconn, un'azienda taiwanese che opera in Cina nella provincia dell'Henan, in quella che è stata definita «la fabbrica degli orrori» dopo che nel 2010 una decina di operai si sono suicidati a causa delle terribili condizioni lavorative.
Il “New York Times” ha pubblicato un'inchiesta in cui denuncia sistematiche e gravissime violazioni delle leggi cinesi sul lavoro, volte ad abbassare ulteriormente il costo della manodopera e ad aumentare i profitti di Foxconn e della stessa Apple. I profitti di quest'ultima sono in effetti raddoppiati nel 2011, soprattutto grazie alle vendite di iPhone e iPad, ma l'inchiesta del “New York Times” instilla un dubbio terribile: non sarà che il successo di Apple non dipende dal genio visionario di Jobs, ma piuttosto da una politica ipercapitalista di sfruttamento globale? Ecco quindi Tim Cook in visita alla fabbrica cinese con tanto di tuta gialla e cappello da operaio, attorniato da fotografi e giornalisti. Atto di coraggio o semplice operazione di marketing?
Se è vero che non ci sono motivi per chiedere ad Apple, e solo a lei, di comportarsi in modo diverso da quello di una qualsiasi altra azienda che delocalizza la produzione dove il lavoro è meno protetto e meno remunerato, è anche vero che il successo della «mela» è dovuto in parte proprio all'immagine diversa che nel tempo ha saputo costruire di sé. All'inizio degli anni Ottanta Apple era Davide contro Golia, rappresentato da Ibm. In un celebre spot televisivo di lancio del MacIntosh, era la resistenza contro un orwelliano potere centrale e pervasivo. In anni più recenti è stata il Prometeo che ha dato agli utenti la libertà di essere connessi facilmente, sempre e comunque: iPod, iPhone, iPad, iCloud. Apple amica dei bambini. Apple nelle scuole. Perfino la federazione romana di Sinistra e libertà ha fatto affiggere un manifesto di commemorazione in occasione della morte di Steve Jobs, a testimonianza di un'immagine in qualche modo progressista, democratica, egualitaria.
Eppure gli addetti ai lavori e gli storici del mondo dell'hi-tech sanno bene che gli hacker, da sempre, odiano Apple e si tengono alla larga dai suoi prodotti. Gli hacker veri, i creativi, gli innovatori, coloro che smontano e ricostruiscono la tecnologia, coloro che hanno inventato Internet e dato avvio alla programmazione informatica. Perchè? Perchè da sempre Apple propone un'idea della tecnologia estremamente chiusa e proprietaria. I dispositivi Apple sono eccezionalmente comodi e funzionali, soprattutto se usati assieme ad altri dispositivi Apple. Ma non si possono smontare, non si possono modificare, non si possono usare in modo diverso da quello per cui vengono venduti. I personal computer Apple sono ormai ben poco personali, se la tendenza è quella di impedire all'utente perfino di installare le applicazioni che desidera, che devono essere preventivamente approvate dai vari Appstore. E questa tendenza ci dice che il futuro sarà un controllo non solo sull'hardware (che è sempre stato rigidissimo in casa Apple), non solo sul software (oggi possibile grazie alla connettività diffusa che consente il controllo centralizzato) ma che arriva fino ai contenuti attraverso i sistemi di Digital Rights Management (Drm) di cui Apple è accanita sostenitrice.
Cosa significa? Che anche i video, le foto, i documenti, la musica, i dati, tutto ciò che rende il computer uno strumento utile per qualcosa, dovrà essere in qualche modo certificato e approvato. E naturalmente tale certificazione non può che rispecchiare degli interessi: non quelli dell'umanità, ma quelli di un'azienda privata e dei suoi investitori. Un esempio è quello di Phone Story, gioco educativo teso a far riflettere proprio sulle condizioni lavorative di chi produce oggetti hi-tech nelle zone povere del mondo: il gioco è stato ritirato lo scorso settembre dall'Appstore ufficiale Apple a poche ore dal lancio, ora è disponibile per gli utenti di iPhone solo attraverso canali underground e formalmente illegali.
Questa di voler certificare qualunque cosa è una tendenza non solo di Apple naturalmente, che si perfeziona nella corsa folle e generalizzata verso la cosiddetta «nuvola» (iCloud nel caso specifico), piattaforma online in cui depositare i propri averi digitali per averli a disposizione in modo ubiquo. Ciò che una volta era «mio» anche fisicamente, oggi tende a essere concesso «in licenza d'uso» e, a scanso di equivoci, non risiede nemmeno più nel mio disco fisso o nel mio telefono, ma è ospitato a casa d'altri, sulla nuvola, dove qualcuno è sempre in grado di prendersene cura nei modi e nei tempi più opportuni. Anche su questo Apple è all'avanguardia. Degli operai cinesi, se non altro, alla fine qualcuno ha dovuto occuparsene, mentre le libertà e i diritti digitali di casa nostra rimangono nascosti dietro una coltre di aggettivi come comodo, bello, veloce.
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