Una tappa fondamentale nel processo democratico turco. Dopo le proteste di Gezy Park del maggio 2013, le elezioni politiche del 7 giugno scorso passeranno alla storia come un’altra tappa importante nel cammino della democrazia turca. Tanto gli elettori quanto i partiti, ad eccezione del partito al potere e del suo leader Recep Tayyip Erdoğan, infatti, hanno passato un importante esame di maturità.Come da più parti è stato sottolineato, la vera novità uscita dalle urne è rappresentata dall’entrata in Parlamento del Partito della democrazia del popolo (Hdp): gli elettori hanno srotolato un tappeto rosso sotto i piedi del leader, Selahattin Demirtaş, che ha raccolto una percentuale di voti sopra le aspettative.
A causa dell’impossibilità di formare coalizioni di governo, dopo gli anni Settanta ad Ankara fu varata una soglia di sbarramento molto alta, del 10%. Una vera e propria “barriera” antidemocratica mantenuta in nome della stabilità anche dal governo del partito di Erdoğan, l’Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo), che è ora crollata in seguito alla volontà del popolo, che ha così detto chiaramente di preferire un sistema democratico parlamentare a quello presidenziale cui aspirava Erdoğan.
Ora, dopo 13 anni di potere, queste elezioni hanno decretato una crisi all’interno del partito di governo e suo rapporto con l’elettorato. Il suo leader e attuale presidente turco Erdoğan, che non ha potuto incoronare il suo sogno di diventare un presidente plenipotenziario, non ha i numeri per poter cambiare la Costituzione. Oltre all’Hdp, che ha ottenuto 80 seggi, queste elezioni hanno portato in il Partito giustizia e sviluppo, il partito di centrosinistra Chp, con 132 seggi, e il nazionalista Mhp, che ha ottenuto 80 seggi.
Queste elezioni, dunque, sono state vinte dall’Hdp – che non solo ha superato la barriera del 10% ma ha quasi raddoppiato i suoi voti rispetto all’elezioni locali del 2013 – ma anche dalla società civile nel suo insieme. Il voto ha inoltre segnato una forte polarizzazione tra islamisti-conservatori, laici-kemalisti, nazionalisti e filo-curdi. Ognuno dei partiti nel nuovo Parlamento ingloba questi gruppi. I voti per l’Hdp sono stati contro Erdoğan e contro il suo autoritarismo galoppante. Demirtaş ha cercato di cancellare la stretta correlazione etnica del suo partito, sforzandosi di presentarsi come il partito di tutta la Turchia e, dopo la vittoria, ne ha sottolineato l’identità di sinistra.
È lui oggi la speranza della Turchia. A lungo avvocato dell’Associazione dei diritti umani, Demirtaş ha convinto l’opinione pubblica con la sua simpatia, l’apertura, l’intelligenza, la visione democratica, i continui riferimenti alla convivenza pacifica. È un anti-Erdoğan: così quanto Erdoğan è un duro, che vuole accentrare in sé tutto il potere, così Demirtaş è un uomo democratico, alla mano, tranquillo, scherzoso, suona il liuto turco (il saz) e si esibisce in televisione come se fosse nel salotto di casa. È l’Obama dei turchi.
Demirtaş ha però un compito difficile e non potrà decidere da solo la politica del suo partito. È per la pace: ma cosa dirà Öcalan da İmralı? Il successo di un giovane leader non lo ha infastidito? E il Pkk proseguirà sul cammino di pace intrapreso? Probabilmente Erdoğan continuerà il processo di pace con i curdi, visto il risultato delle elezioni.
A Diyarbakır si respira un’aria pesante, prima delle elezioni al comizio di Demirtaş le bombe esplose hanno provocato la morte di tre persone e causato centinaia di feriti. Le indagini portano a Hezbollah e ai servizi segreti stranieri. Demirtaş ha sottolineato possibili attacchi dell’Isis e di Hezbollah verso i curdi, segnalando la presenza di cellule di Hezbollah in diverse parti della Turchia che aspettano solo gli ordini per nuovi attentati. Il Pkk ha dichiarato l’inizio della ritirata dai territori, ma questo non significa disarmo ed è evidente che la condizione di un possibile disarmo resta strettamente condizionata dal rilascio di Öcalan.
Dopo un silenzio stampa durato due giorni, a parte una breve dichiarazione scritta, Erdoğan ha invitato le parti ad agire nell’interesse del Paese. Nel suo partito c’è chi vorrebbe una coalizione con i nazionalisti dell’Mhp, ma un simile accordo rischierebbe di congelare il processo di pace. In alternativa, potrebbe essere il principale partito all’opposizione, il Chp, ad allungare per primo una mano all’Mhp, e in questo caso la coalizione di governo conterebbe sull’appoggio esterno dell’Hdp.
In attesa che si sciolgano tutte le riserve e che possa formarsi un nuovo governo, resta chiara l’intenzione espressa dagli elettori di bocciare qualsiasi ipotesi di sistema presidenziale. Ma quale strategia adotterà ora Erdoğan? Il Primo ministro Davutoğlu come leader del partito non è stato all’altezza, e in parte la responsabilità della sconfitta subita dal Pkk è anche sua, tanto che in questi giorni si parla di un possibile ritorno sulla scena di Abdullah Gül, ex presidente della Repubblica e tra i fondatori del partito.
In attesa di conoscere gli sviluppi, questo grande Paese in mezzo nel caos mediorientale continua a costituire un vero e proprio laboratorio di democrazia. A due anni da Gezy Park, non vi sono più dubbi sul ruolo fondamentale che anche la società civile svolge e svolgerà sempre di più come attore politico cruciale, e nessun partito potrà più ignorarla.
[L’autore di questo articolo è un giornalista turco, che per ragioni di sicurezza non può firmare con il proprio nome]
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