Anche i ricchi piangono (ma non i super-ricchi). Quello della diseguaglianza è un tema ricorrente in tutte le epoche e scienze sociali. Non c’è dunque nulla di straordinariamente nuovo nel fatto che anche oggi sia al centro del dibattito pubblico, a maggior ragione in un momento in cui la crisi finanziaria ha aumentato la forbice tra ricchi e poveri. E non è un caso che uno dei più clamorosi successi editoriali di questi ultimi anni sia ll capitale nel XXI secolo, tomo di Thomas Piketty le cui caratteristiche narrative ed editoriali non sono esattamente quelle tipiche di un best seller, e che proprio sull’aumento delle diseguaglianze concentra la sua analisi.
Negli Stati Uniti, però, sta succedendo qualcosa di nuovo e curioso.
Che la diseguaglianza nel mondo “occidentale” stia crescendo è un dato di cui si può avere esperienza diretta già arrivando in qualunque angolo dell’Occidente. Meglio se in aereo. La diseguaglianza si assapora già prima del viaggio, quando si acquista il biglietto aereo. Ovvero quando si è posti di fronte a un formidabile ventaglio di opzioni, separate l’una dall’altra da qualche migliaio, centinaio o decina di euro o dollari: non si sceglie più soltanto tra business class ed economy – niente di nuovo in tutto ciò – ma tra i posti comfort e posti (evidentemente) non comfort; tra imbarco prioritario e imbarco non prioritario (e cosa ne sarebbe se tutti i passeggeri comprassero la prima opzione?) e così via.
Ma, fino a qui, ancora niente di straordinariamente nuovo rispetto al tema dell’eguaglianza. Il punto è che negli Stati Uniti l’attenzione di una certa letteratura incomincia a soffermarsi non tanto sulle differenze che balzano all’occhio tra chi siede in business e, dopo essere stato accolto dal drink di benvenuto, si sdraia comodamente su una poltrona reclinabile e chi invece, dopo la gomitata di benvenuto, viaggerà annusandosi le ginocchia. L’America comincia a interrogarsi sulle diseguaglianze tra chi siede – o è disteso – in quell’aereo e chi invece vola con un jet privato.
Il famoso 1% (quello che detiene la metà della ricchezza mondiale) sta infatti soffrendo a sua volta un problema di diseguaglianza interna. All’interno di questa fortunata porzione di ricchi, infatti, i super-ricchi guadagnano sempre di più, e i semplicemente-ricchi non riescono a stare al passo. Il problema dell’1% sta insomma cedendo il passo al problema dello 0,1%. Che quello sia il trend della società americana è quadro tracciato inequivocabilmente dai numeri. Nel 1979 la fascia alta dello 0,1% dei più ricchi nella distribuzione della ricchezza deteneva il 7% della ricchezza totale americana, mentre nel 2012 la stessa quota arriva al 22% (così Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, Wealth Inequality in the United States Since 1913: Evidence from Capitalized Income Tax Data, NBER Working Paper No. w20625, 2014). Tutto ciò ha un impatto notevole sulla narrazione della società americana e la percezione di sé delle sue componenti. Il declino di quella che solitamente viene definita middle class, più che un declino diventa così un paradosso aritmetico, nella misura in cui la classe media è lontana anni luce dalla metà della ricchezza del paese (in tema si veda Matteo Battistini, Il declino della classe media americana, "il Mulino", 3/2015).
E perché mai la diseguaglianza in cima alla piramide dovrebbe essere un problema? Questo è uno degli orizzonti di ricerca del professor Daniel Shaviro della New York University. Quando si parla di diseguaglianza, infatti, si hanno in mente due cose separate: più spesso si ha in mente la diseguaglianza nella fascia bassa della ricchezza, meno spesso la diseguaglianza nella fascia alta. Il motivo per cui il primo aspetto venga ritenuto solitamente più allarmante è intuitivo e deriva dalla manifestazione della diseguaglianza: la povertà. I motivi per cui dovremmo preoccuparci del secondo aspetto della diseguaglianza sono, invece, più controintuivi, ma non per questo meno seri. Anche la diseguaglianza di lusso, infatti, può avere effetti molto negativi sul complesso della società. Per citarne qualcuno: la riduzione della competizione politica in un sistema dove il finanziamento privato di campagne elettorali può essere decisivo. Oppure, secondo alcuni (Joseph E. Stiglitz, The Price of Inequality: How Today's Divided Society Endangers Our Future, W. W. Norton & Company, 2013), la riduzione della stabilità economica e della crescita. Ma non sono soltanto questi gli effetti della diseguaglianza di lusso su cui si sta concentrando l’analisi degli studiosi americani. Vi sono altri effetti negativi che si propagano in aree meno prevedibili: la diseguaglianza di lusso creerebbe invidia sociale, ciò avrebbe effetti deleteri sulla mobilità economica, le aspettative di vita, la mortalità infantile, il tasso di natalità, l’educazione, la salute e altri aspetti essenziali a misurare la qualità di vita di una comunità (Richard Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level: Why Greater Equality Makes Societies Stronger, Bloomsbury Press, 2010).
Aspetti, questi, che derivano non soltanto dai numeri, ma anche dalla percezione di sé che le componenti della società hanno rispetto “agli altri”. Percezioni che possono mutare nel tempo e nello spazio, non necessariamente seguendo fedelmente la “realtà economica”, ma finendo potenzialmente per influenzarla. Ed è anche di tali percezioni che si occupa la ricerca di Daniel Shaviro, attraverso il ricorso alla metodologia propria dell’approccio interdisciplinare noto come law and literature (i risultati saranno pubblicati in un volume intitolato Enviers, Rentiers, Arrivistes, and the Point-One Percent: What Literature Can Tell Us about High-End Inequality).
È dunque vero, e sempre più vero, che anche i ricchi (purché non siano super-ricchi) piangono. Ciò che non sappiamo ancora è se sia economicamente e socialmente, prima ancora che eticamente, giustificabile quella sensazione d’inconfessabile agio che molti possono provare di fronte a questo disagio di lusso. Quella sensazione che i tedeschi con la loro potente lingua descrivono in una solo parola – Schadenfreude (“gioia dei danni altrui”) – e che Shaviro affida alle parole di Gore Vidal: “Non è sufficiente avere successo; altri debbono fallire”. Perché se i ricchi piangono – ma i super-ricchi se la godono – un’analisi non solo emotiva dei motivi (e degli effetti di questo pianto) potrebbe risolversi in un bel pianto collettivo e “interclassista”.
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