Lo Statuto dei lavoratori del 1970 costituisce una pietra miliare non solo del diritto del lavoro, ma della realizzazione del disegno costituzionale repubblicano, avendo dato un fondamentale contributo – come giustamente sottolinea Umberto Romagnoli – all’ingresso e al radicamento dei diritti di cittadinanza democratica nei luoghi di lavoro.
Ciò non significa, però, che lo Statuto debba ritenersi intangibile e che, decorsi ormai oltre quarant’anni dalla sua adozione, non necessiti di alcuni mirati adeguamenti al mutato contesto socio-economico. Lo Statuto, infatti, è stato pensato in un contesto in cui il mercato nazionale era sostanzialmente chiuso: lo Stato-nazione era ancora in grado di dettare e far rispettare le condizioni di entrata e uscita delle imprese e dei capitali nazionali e stranieri, potere statuale che al progredire della globalizzazione è finito per evaporare.
La funzione del diritto del lavoro non può più essere esclusivamente quella di proteggere i lavoratori dagli abusi esercitabili dai datori di lavoro in virtù della condizione di debolezza dei primi, obbligati a prestare lavoro per aver di che vivere. Oggi il diritto del lavoro, senza abdicare all’originaria funzione protettiva, deve conciliarla con l’ineludibile esigenza di dettare condizioni che non minino la capacità competitiva dell’impresa, ma, anzi, le consentano di sfruttare le sue potenzialità nel mercato globale. Per discutere di ripartizione di profitto tra capitale e lavoro, la pre-condizione è che vi sia un profitto da ripartire. E’ vero che la competitività delle imprese nazionali e la capacità attrattiva del nostro Paese di investimenti stranieri non dipendono in modo esclusivo, e neppure primario, dagli oneri economici e gestionali imposti dal diritto del lavoro, ma è parimenti indubitabile che le condizioni di lavoro hanno una loro non trascurabile rilevanza che impone di ricomprenderle nel necessariamente più ampio disegno di riforma del nostro sistema produttivo, formativo, finanziario e creditizio.
A me pare che la riforma Fornero, nel porre le mani su quella che è considerata la norma simbolo dello Statuto dei lavoratori, l’art. 18, tenti onestamente di ammodernare il diritto del lavoro italiano per renderlo in grado di perseguire questa duplice finalità. Sarebbe ingeneroso rinvenire in questa riforma un ulteriore passo nel percorso di precarizzazione del mercato del lavoro in continuità con le politiche del centrodestra. Oltretutto, a ben vedere, questa precarizzazione non è neppure attribuibile in misura esclusiva agli interventi normativi dei governi Berlusconi, ma è stata piuttosto il frutto della ricerca incessante e frenetica da parte delle imprese di margini di flessibilità dell’organizzazione produttiva, assai spesso conquistati per mezzo dell’elusione - se non dell’aperta violazione - della disciplina giuslavoristica. Se si analizzano i dati di flusso, si rileva che oltre il 70% dei nuovi rapporti di lavoro instaurati ogni anno in Italia sono regolati da contratti non di lavoro subordinato a tempo indeterminato, bensì da contratti a termine, di collaborazione professionale, di lavoro a progetto, di lavoro autonomo con partita Iva. Si tratta di tipologie contrattuali per le quali non solo vige il principio della libera recedibilità senza alcuna tutela avverso il licenziamento, ma (con la sola esclusione dei contratti a termine) che non garantiscono neppure una retribuzione minima, che non prevedono né tutele effettive avverso la malattia né ammortizzatori sociali. Con questa realtà bisogna inevitabilmente confrontarsi, ricercando soluzioni praticabili.
Orbene, la riforma Fornero mira a superare il carattere duale del mercato del lavoro italiano proponendo un compromesso, realizzato forse in termini tecnicamente non ottimali, ma nella sostanza condivisibili: ampliare l’area di applicazione della disciplina legale del tipo-standard del lavoro subordinato alla gran parte dei rapporti di lavoro autonomi precari, a fronte di un moderato incremento della flessibilità in entrata e in uscita di questa disciplina.
Per il primo profilo la riforma rende più restrittive le condizioni per potere ricorrere a contratti di lavoro a progetto e alle prestazioni di lavoro autonomo con partita Iva. Sono considerati quali rapporti di lavoro subordinato, superando la qualificazione formale adottata dalle parti, tutti i rapporti contrattuali per i quali ricorrano almeno due dei seguenti presupposti: a) che la durata della collaborazione sia superiore a sei mesi nell’arco di un anno solare; b) che il ricavo dei corrispettivi percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare superi la misura del 75%; c) che il prestatore abbia la disponibilità di una postazione di lavoro presso il committente. Si vieta che imprenditori commerciali e professionisti possano utilizzare lavoro cosiddetto accessorio (con pagamento mediante voucher).
Anche l’associazione in partecipazione di lavoratori è ammessa soltanto per tre associati per ogni azienda, e con la prova che l’associato partecipi agli utili e ne possa controllare la loro determinazione. A fronte dell’ampliamento dell’ambito di applicazione delle tutele del lavoro subordinato a tipologie contrattuali che ne erano sinora (formalmente o sostanzialmente) escluse, per un verso si incrementa la flessibilità in entrata - eleggendo il contratto di apprendistato a modalità prevalente di assunzione e liberalizzando soltanto il primo contratto a termine instaurato tra un’impresa e un lavoratore - e, per altro verso, si riduce parzialmente la tutela avverso i licenziamenti.
Quest’ultimo aspetto, come noto, è oggetto di radicali critiche da parte delle organizzazioni sindacali. Sarebbe stato, forse, preferibile intervenire sui motivi legittimanti il licenziamento piuttosto che sulle modalità di tutela; a ogni modo, la riforma non segna certo il passaggio a un regime di licenziamenti facili. La reintegrazione, con il connesso diritto a tutte le retribuzioni non percepite dal momento del licenziamento sino all’effettiva reintegrazione, viene mantenuta nei casi di licenziamenti cosiddetti discriminatori (per genere, età, opinioni politiche, appartenenza sindacale, disabilità ecc). Egualmente continua a trovare applicazione se il licenziamento è adottato per motivi disciplinari o per giustificato motivo oggettivo (cosiddetti licenziamenti economici) quando, all’esito del giudizio, le motivazioni addotte dall’azienda risultino insussistenti: in tal caso, però, il lavoratore reintegrato avrà diritto anche a un risarcimento del danno nella misura massima di 12 mensilità, e non pari a tutte le retribuzioni perdute dal momento del licenziamento, mentre la contribuzione previdenziale deve essere versata per tutto questo periodo dal datore di lavoro. La medesima tutela trova applicazione anche quando nei licenziamenti collettivi vengano violati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Soltanto i vizi formali o procedimentali, che non investono cioè la veridicità o fondatezza o proporzionalità delle circostanze addotte a giustificazione del licenziamento, comportano, sia per i licenziamenti individuali sia per quelli collettivi, l’obbligo per il datore di lavoro non di reintegrare il lavoratore, ma soltanto di corrispondergli un’indennità determinata equitativamente dal giudice da un minimo di 6 a un massimo di 12 mensilità di retribuzione.
Mi sembra allora che, se la prospettiva di osservazione si amplia dalla posizione individuale del lavoratore oggi già assunto con rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle tutele approntate dall’ordinamento in favore di tutti i lavoratori e a coloro in cerca di occupazione nel mercato nazionale, si debba registrare un incremento di protezione avverso la precarietà piuttosto che una riduzione e un passo importante verso il superamento del dualismo del mercato del lavoro italiano.
Se dall’analisi dell’art. 18 dello Statuto ci spostiamo a quella dell’art. 19, si debbono condividere integralmente le notazioni di Romagnoli. Il referendum del 1995 ci ha consegnato una norma “violentata” e antidemocratica secondo cui sono legittimati alla costituzione di rappresentanze in azienda soltanto le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto accordi di qualsiasi livello che vi sono applicati. Come insegna la vicenda Fiat-Fiom, non firmare alcun accordo per un sindacato significa esser fuori dall’azienda, anche quando si è il sindacato maggiormente rappresentativo come numero di iscritti. Questa norma si salda, ora, pericolosamente con l’art. 8 della legge n. 148/2011, colpo di coda del precedente governo, secondo cui un accordo aziendale sottoscritto dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali (costituite secondo i criteri di cui all’art. 19 della legge n. 300/70) può derogare in senso peggiorativo sia a previsioni del contratto collettivo nazionale sia della legge, vincolando tutti i lavoratori ivi impiegati, anche non iscritti alle organizzazioni sindacali firmatarie.
Non mi preoccupa tanto che il diritto del lavoro possa esser disponibile dalle organizzazioni sindacali, tale facoltà può anche costituire una risorsa regolativa seppur necessiti di esser circoscritta entro limiti rigorosi e chiari, che la legge n. 148/2001 si è ben guardata dal dettare. Ritengo piuttosto inaccettabile sul piano delle libertà democratiche che le rappresentanze sindacali, legittimate a esercitare un così rilevante potere regolativo, non debbano esser investite dal voto o dall’esplicito mandato della maggioranza dei lavoratori impiegati in quell’azienda, anche se non iscritti a nessun sindacato o iscritti a quei sindacati dissenzienti, che non possono oggi costituire rappresentanze sindacali. Sebbene non compaia nell’agenda del governo un intervento di modifica né dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori né dell’art. 8 della legge n. 148/2011, è quantomai urgente che queste norme siano ricondotte nell’alveo del sistema costituzionale.
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