Chiuso il tormentone della campagna elettorale con risultati che hanno sconvolto il panorama politico italiano, si apre quello della ricerca di una maggioranza parlamentare in grado di esprimere e sostenere un governo.Piaccia o meno, lo sconfitto, il Pd, diventa l’ago della bilancia, in quanto è l’unico bacino da cui ciascuno dei due vincitori, M5S e coalizione di centrodestra, potrebbe ricavare i voti che gli mancano per raggiungere la meta. Naturalmente dopo una campagna elettorale in cui tutti hanno giurato che non si sarebbero fatti accordi “contro natura” è tutt’altro che facile. Come venirne fuori?

Il Pd, come accade spesso agli sconfitti, si spacca sulle possibili strategie. Il tema è, almeno al momento, se sia possibile o meno un appoggio tecnico ed esterno che consenta comunque ad uno dei due contendenti di formare un governo. Almeno sulla carta, una componente propende per dare questo vantaggio al M5S, con la presunzione che si tratti in qualche modo di una forza “di sinistra” (o comunque più di sinistra di altre), mentre altrimenti si tratterebbe di sostenere una forza dichiaratamente di destra. La controindicazione è che naturalmente ci si consegnerebbe a sottoscrivere una politica grillina sulla cui solidità ci sono molte riserve e misure che sono state criticate aspramente, essendo difficile immaginare che i pentastellati possano rinunciare in modo plateale alla loro maschera pubblica.

Di qui la presa di posizione di Renzi che sbarra la strada ad accordi di questo tipo. Tuttavia, per essere credibile, il segretario para-dimissionario (ora la nostra Repubblica può disporre anche di questa nuova figura) dovrebbe indicare una posizione alternativa al bullesco invito rivolto ai vincitori ad impiccarsi da soli. C’è infatti da chiedersi dove possa condurre una situazione di stallo assoluto, essendo impossibile qualsiasi intesa per esempio fra M5S, Lega e FdI – intesa che pure avrebbe i numeri, ma che apparirebbe troppo contro natura ai militanti dei tre partiti, senza contare i contrasti al loro interno sulle misure da varare come misure segnaposto. È abbastanza facile pensare che, salvo decisioni ispirate alla follia, sia da escludere un rapido ritorno alle urne: il Paese non riuscirebbe a reggere i tre mesi di zuffa che questo comporterebbe; non ci sarebbe alcuna garanzia di ricavarne poi un risultato di governabilità; infine, da questo caos la nostra situazione finanziaria (debito pubblico) riceverebbe un danno tremendo.

E allora? Al momento gli scenari ipotizzabili sembrano essere due (poi magari la fantasia creativa delle nostre classi politiche tirerà fuori qualche coniglio dal cappello, ma non sappiamo immaginare quale). Entrambi gli scenari avrebbero però lo stesso sfondo, cioè una situazione di grave pericolo per la tenuta economica e sociale del Paese. È questa la condizione che può offrire ai partiti l’alibi per fare quello che in campagna elettorale hanno giurato di non fare, ma certo non sarà una festa. A fronte di una simile emergenza potrebbe essere chiesto al Pd di arrendersi all’idea dell’appoggio tecnico a un governo di minoranza. Potrebbe essere quello dei 5 Stelle, se questi nel frattempo non faranno troppi pasticci. Più difficilmente a un governo di centrodestra, ma in questo caso a guida fortemente moderata con la marginalizzazione momentanea di Salvini: arduo, ma non impossibile come sacrificio imposto dalle circostanze. Anzi, in questo caso sarebbe anche più facile sottolineare la natura tecnico-strumentale dell’operazione, perché il Pd potrebbe accordarsi per votare ufficialmente contro e per autorizzare il numero necessario di franchi tiratori che compiono l’opera essendo il numero di voti necessario molto inferiore alla consistenza del suo gruppo parlamentare.

In alternativa c’è quello che sarebbe corretto chiamare un governo “di tregua”, giusto per evitare definizioni poco amate come “tecnico”, “di scopo”, “del presidente”. Sarebbe un governo fatto di non politici (non facili a trovarsi in questo Paese in cui tutti si schierano da qualche parte), destinato a durare fino a una nuova chiamata alle urne (che potrebbe essere fissata con l’indistinto termine della elaborazione di una nuova legge elettorale, anche se non si sa immaginare un accordo su questo tema con l’attuale situazione degli schieramenti). Avrebbe naturalmente una larga base di appoggio parlamentare al momento del varo, perché sarebbe possibile solo se a nessuno fosse permesso di ricavarsi la comoda posizione del critico esterno.

Qual è la debolezza di tutte le soluzioni esaminate? Che avremmo comunque governi alla mercé di tutte le fibrillazioni parlamentari e dunque continuamente a rischio di cadere, anche se si saprebbe che una loro caduta sarebbe l’anticamera del caos. Così si incentiverebbe o un governo furbesco che alterna provvedimenti graditi a una possibile maggioranza con quelli che risultano appetibili da un’altra di diversa composizione; oppure un governo che per non scontentare nessuno si limita alla più banale ordinaria amministrazione evitando qualsiasi decisione forte.

Detto con chiarezza, nessuna sarebbe una soluzione che ci farebbe stare in Europa e nel mondo con quel ruolo autorevole e rispettato senza il quale si finisce vittime di tutte le trame. Eppure, e purtroppo, sembra proprio questo il tunnel in cui ci stiamo inoltrando.

 

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