1. A lungo l’idea di crescita economica è stata svincolata da quella di sostenibilità ambientale, sia rispetto allo sfruttamento delle risorse sia rispetto agli impatti che le attività umane producono sugli ecosistemi. Ora si sta facendo strada la consapevolezza che non sia possibile ragionare di crescita senza considerare l’impatto ambientale. A suo giudizio, quanto tale consapevolezza ha raggiunto chi deve mettere in atto le politiche per arginare gli effetti delle attività umane? E, in base alla sua ottima conoscenza dell’Italia, quanto il nostro Paese è distante rispetto ai Paesi europei più virtuosi?
Esiste di certo una maggiore consapevolezza. Il movimento di protesta iniziato da Greta Thunberg e sviluppatosi nei Fridays For Future è riuscito a portare in strada a manifestare milioni di persone, tanto che la politica tradizionale, alla lunga, non li ha più potuti ignorare e ha dovuto aprire le orecchie. La protezione dell’ambiente e l’attenzione ai cambiamenti climatici sono il tema che più di tutti ha mobilitato e tuttora mobilita i giovani – e non solo i giovani, come si è visto. Di conseguenza, la politica che tradizionalmente non è mai stata particolarmente «verde» ha dovuto farsi recettiva a queste istanze fondamentali. Tutto ciò è particolarmente sentito nei Paesi in cui i partiti verdi sono riusciti a trasformare questa volontà in successi elettorali solidi. A questo punto, semmai, il problema è verificare che non si tratti soltanto di un’adesione di facciata, ma che questo consenso politico si traduca in decisioni vincolanti, vale a dire in leggi e impegni concreti.
Bisogna riconoscere che, ormai, la vecchia dicotomia lavoro contro ambiente è superata. Oggi chi vuole creare posti di lavoro di qualità, infatti, non può che puntare su prodotti e servizi che rispettino l’ambiente. Solo un’economia basata sull’ecologia potrà garantire il benessere delle generazioni a venire. Questa impostazione richiede un ripensamento non solo della prassi economica, ma anche della sua teoria. Una crescita legata allo sfruttamento di risorse naturali non è più possibile, mentre nei settori della cura e dell’istruzione avremmo bisogno di un numero crescente di persone qualificate. La stessa definizione di Pil andrebbe rivista in modo da misurare l’effettivo aumento di benessere e da escludere l’esternalizzazione dei costi ecologici e sociali. È evidente che tutto questo richiede un grande sforzo non solo da parte della politica, ma anche da parte degli economisti e della società intera. Sia chiaro, fare politica verde non significa solo piantare alberi, bensì guardare a una trasformazione ecologica e sociale profonda, da implementare in modo graduale, ma coerentemente. A livello europeo, per esempio, non si può che guardare con grande favore al Green Deal e alla legge sul clima. Tuttavia, la sostanziale riconferma della politica agricola comune decisa recentemente dalla maggioranza del Parlamento europeo (inclusi i partiti socialisti) avrà conseguenze drammatiche per la biodiversità e per le piccole aziende agricole a conduzione familiare. Se è vero che ci vogliono politiche coerenti bisogna dunque riconoscere che, alla prova dei fatti, ancora non le vediamo promosse fino in fondo da parte dell’Europa.
Per quanto riguarda l’Italia, la situazione è complessa. Il vostro Paese, infatti, è all’avanguardia in Europa sul fronte di diverse pratiche sostenibili: nel riciclaggio di rifiuti, almeno in molte province, nell’efficienza energetica, nell’uso delle energie rinnovabili, nell’agricoltura biologica. Se da un lato va detto che molte piccole aziende italiane indicano la strada all’Europa, dall’altro non si può negare che spesso vengono lasciate sole. Se quindi la coscienza ecologica per tanti aspetti è presente, finora sembra non sapersi tradurre in una rappresentanza politica forte. Ecco dunque la necessità per l’Italia di poter contare su un movimento che sappia coniugare ecologia, economia e giustizia sociale.
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 6/20, pp. 1075-1080. Il fascicolo è acquistabile qui]
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