Aleksandr Solženicyn è espulso dall’Unione Sovietica nel febbraio 1974. Al suo arrivo a Francoforte, il giorno 13, a bordo di un Tupolev dell’Aeroflot, trova ad attenderlo un’auto diplomatica che lo porta a Langenbroich, nei pressi di Kreuzau, tranquilla cittadina renana. Qui l’amico scrittore Heinrich Böll possiede una casa pronta a ospitarlo.

L’espulsione è motivata dalla scelta di pubblicare Arcipelago Gulag in Francia e comporta la revoca della cittadinanza: lo scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1970, non potrà più tornare in Urss. Da tempo Solženicyn, i suoi familiari e collaboratori sono oggetto di pressioni e minacce. Nel 1973, in agosto, si è impiccata la sua segretaria e confidente: ha rivelato il nascondiglio del dattiloscritto di Arcipelago Gulag dopo essere stata interrogata per cinque giorni dagli uomini del Kgb. In precedenza, nel 1965, a Solženicyn è stato sequestrato l’archivio. La stampa occidentale definisce «brutale» il trattamento che gli è riservato, e non c’è dubbio che la pena dell’esilio sia dolorosa per uno scrittore profondamente legato alla tradizione slavo-ortodossa. D’altra parte l’espulsione, non importa quanto ruvidi siano i modi della polizia politica sovietica, risparmia a Solženicyn l’altrimenti inevitabile processo, una seconda deportazione o l’internamento in un «ospedale psichiatrico speciale» (se non la fucilazione).

Le circostanze ricordate suggeriscono, a distanza di cinquant'anni, di ricostruire in breve la storia della ricezione italiana di Solženicyn, singolarmente contrastata e segnata da vistose cesure pre- e post-1974. Per la notorietà internazionale e la parte recitata in seno al Dissenso negli anni di Chruščëv e Bréžnev, si può riconoscere all’autore di Arcipelago Gulag il ruolo di “reagente storiografico”: l’accoglienza riservata alle sue opere, via via che queste vengono tradotte e pubblicate, contribuisce a misurare le ambiguità del distacco del Pci dall’Unione Sovietica e la controversa maturazione dell’“eurocomunismo”.

Al momento della pubblicazione italiana di Una giornata di Ivan Denisovič, la fama di Solženicyn è immediata. Il breve romanzo, che documenta per la prima volta in forma estesa l’esistenza dei campi di lavoro coatto in Urss (taccio qui di Un mondo a parte di Gustaw Herling, apparso in traduzione nel 1958 ma passato quasi del tutto inosservato), esce nel 1963 per due distinti editori, Garzanti ed Einaudi, ed è preceduto da un’autorevole presentazione di Aleksandr Tvardovskij sull’«Europa letteraria».

Una giornata di Ivan Denisovič, che documenta per la prima volta in forma estesa l’esistenza dei campi di lavoro coatto in Urss, esce nel 1963 per due distinti editori, Garzanti ed Einaudi

Critico e poeta, uomo delle istituzioni e sostenitore del “disgelo”, Tvardovskij è il direttore di «Novyi Mir», la rivista su cui il romanzo di Solženicyn appare nel novembre 1962. È anche il più convinto e sagace promotore di Solženicyn, sin allora del tutto sconosciuto in Urss. È Tvardovskij, letto il dattiloscritto di Una giornata, a dare avvio, nella società letteraria moscovita, a quell’efficace passa-parola che giunge sino a Chruščëv, alla testa del governo dell'Unione Sovietica, e lo spinge a favorire la pubblicazione del romanzo. Tutto questo è noto: come pure la tesi, forse eccessivamente tortuosa, che Chruščëv finga di ignorare le implicazioni antisovietiche di Una giornata di Ivan Denisovič pur di reclutare il romanzo (e il suo autore) nella battaglia contro i cosiddetti “stalinisti” del Pcus.

È meno noto che all’origine della fortuna di Una giornata sia un robusto fraintendimento, riconosciuto da Solženicyn stesso nell’autobiografia La quercia e il vitello e attestato tanto nell’interpretazione che Tvardovskij dà del romanzo, quanto in Chruščëv e, ancora, nei primi sostenitori italiani di Solženicyn, come Vittorio Strada, Franco Fortini e Lucio Lombardo Radice. Per tutti loro Una giornata di Ivan Denisovič è un romanzo (per così dire) di buon panno ottocentesco, «realista», scritto con il cuore in mano da un autore che non conosce le malizie della letteratura occidentale e si propone di parlare a tutti. La domanda è: Tvardovskij crede davvero a ciò che scrive, alle semplificazioni anche un po’ sprovvedute di cui lui stesso si serve, alla tesi di un Solženicyn candido e popolare? Difficile rispondere: persino Solženicyn, che conosce bene Tvardovskij, attribuisce al mentore un’enigmaticità destinata a non diradarsi. Tvardovskij è un fine critico e un “tattico” supremo, provvisto di antenne capaci di avvertire i più sottili cambiamenti negli equilibri politici moscoviti. Sappiamo che invita Solženicyn, dopo averne letto il dattiloscritto, a emendare alcuni passaggi. Vuole che Una giornata di Ivan Denisovič sia pubblicato, è evidente: purché questo accada, non esita a cospirare perché lo scrittore renda più “opaca” e benevola la superficie del testo.

Da qui l’appoggio di Strada, slavista vicino al Pci, all’autore di Una giornata: Solženicyn è presentato (su «Rinascita» nel 1963) quasi come un Gogol’ o un Čechov minore, o un Leskov contemporaneo, ingaggiato nella rinnovata battaglia per il socialismo e pronto a testimoniare la bontà dell’esperimento sovietico una volta fatti i conti con il «culto della personalità». Così profilato, Solženicyn può diventare, in Italia, un apologeta del «socialismo dal volto umano»; o, detto in altri termini, un operaio nella vigna di Chruščëv, desideroso di dar mano con umiltà e trepidazione.

L’interpretazione di Strada, fedele all’impostazione di Tvardovskij, detta la linea in Italia, fatta eccezione per Fortini e pochi altri. Ne ritroviamo l’eco, ancora a distanza di un decennio, nel capitolo dedicato a Solženicyn degli Accusati di Lombardo Radice (1972). Se questa stessa interpretazione ha il merito di suscitare attenzione e rispetto per lo scrittore russo, malgrado prevedibili resistenze dentro e fuori dal Pci, attenua o rimuove del tutto, per il suo tratto edificante, «nazional-popolare» e gramsciano, quanto in Solženicyn non è riconducibile alle ideologie narrative della letteratura del “disgelo” (Ehrenburg, Dudincev, Nekrasov ecc.) né al problema di una transizione interna al socialismo sovietico e si configura invece come opposizione insuperabile.

Stabilite le premesse, è più facile capire come la pubblicazione dei due primi volumi di Arcipelago Gulag, apparsi a Parigi nel 1973, colga in larga parte impreparata l’opinione pubblica italiana di sinistra, che nel «saggio di inchiesta narrativa» di Solženicyn non trova alcun sostegno all’equivoco di uno scrittore ingenuo e candidamente affabulante. «Quando uscì la traduzione del libro di Solženicyn sul Gulag», ricorda Carlo Ginzburg nel 2003,

«lo vidi in libreria, lo sfogliai e non lo comprai. Ricordo questo come un vero atto di viltà: c’era qualcosa che volevo tenere lontano, a tal punto che poi il libro non l’ho letto. Un esempio di rimozione diffusa, benché io non fossi iscritto al Partito comunista. Mi pare che nei confronti della realtà concentrazionaria in Unione Sovietica nella sinistra italiana si sia verificato un processo curioso, anche se tutt’altro che raro: si è passati quasi senza transizione dalla rimozione silenziosa all’atteggiamento “ma tanto sapevamo già tutto”».

Sia reso merito a Ginzburg per questa sua testimonianza, che spiega in parte i costumi di livore e reticenza di tanta pubblicistica anti-Solženicyn post-1974. Resta che la posta in gioco, al tempo, è (avrebbe dovuto essere) una valutazione complessiva dell’esperienza socialista sovietica: più rilevante, anche in prospettiva occidentale, del favore che si intende concedere o meno al singolo autore .

L’espulsione di Solženicyn è motivo di grande imbarazzo per i vertici del Pci, impegnati a segnare una qualche autonomia e distanza dal Pcus. Una prima nota, redatta da Giorgio Napolitano, presidente della Commissione culturale del partito, sceglie la via “diplomatica”: censura e repressione, osserva Napolitano, finiscono per favorire posizioni antisovietiche, sono cioè controproducenti. Un modo per chiedere maggiore tolleranza e rispetto dei diritti umani in Urss. Consegnata a Mosca, la nota suscita però grande irritazione. Solženicyn, ribattono i sovietici, «ha preso la via del tradimento»: i partiti comunisti occidentali non possono che apprezzare la «saggezza» del Pcus. A distanza di giorni, Napolitano pubblica un editoriale sull’«Unità» e «Rinascita» in cui, modificando il proprio precedente punto di vista, fa propria la posizione sovietica. Ciò che più colpisce oggi, dell’editoriale di Napolitano, non è la circolarità dell’argomentazione, in qualche modo obbligata; né (tantomeno) le mediocri illazioni (di provenienza Kgb) sul conto dei «diritti d’autore» (che Solzenicyn, ricordiamolo, devolve per intero alla Fondazione sociale russa, da lui stesso fondata a beneficio di deportati, ex-deportati e delle loro famiglie). Piuttosto la difficoltà, da parte del Pci, di riconoscere che la questione della repressione in Urss non si è affatto risolta con la morte di Stalin e i primi anni del «disgelo», al contrario; e che la battaglia per la «verità» di Solženicyn, e così di Sacharov e altri, trae necessità non solo né tanto dal Terrore staliniano, ormai agli atti, quanto dal neostalinismo di epoca brezneviana.

Alla graduale rimozione post-1974 della figura di Solženicyn dalla cultura italiana marxista e laico-liberale contribuiscono la scarsa conoscenza delle fonti artistiche, teologiche e filosofico-letterarie dello scrittore

Alla graduale rimozione post-1974 della figura di Solženicyn dalla cultura italiana marxista e laico-liberale contribuiscono la scarsa conoscenza delle fonti artistiche, teologiche e filosofico-letterarie dello scrittore e le polemiche attorno al Discorso di Harvard (1978), in cui Solženicyn contesta mancanza di «coraggio» all’Occidente. È una rimozione a mio avviso dolorosa. Storici tra i più autorevoli si interrogano da tempo sulle implicazioni di lungo periodo della «rimozione del Gulag» in Occidente; e sui modi molteplici in cui il regime sovietico, negli anni di Stalin e non solo, ha costruito e imposto, presso opinioni pubbliche «progressiste», la menzogna dell’Urss come «paradiso dei lavoratori» e potenza pacifica. Nel farlo, molti di loro si richiamano a Solženicyn. Lungi dall’esaurirsi su piani specialistici, simili ricerche proiettano oggi in un orizzonte mai concluso, a venire, temi e problemi che possiamo avere creduto definitivamente risolti, se non già con la morte di Stalin, almeno con la fine dell’Unione Sovietica.

D’altra parte l’importanza di Solženicyn scrittore, questa la mia tesi, non è circoscrivibile alla sola ricostruzione storica dell’«arcipelago» concentrazionario sovietico, e oltrepassa di gran lunga l’ambito del Dissenso. Sin dai primi racconti, ma con diversa ambizione e risolutezza nel Primo cerchio e Padiglione cancro, Solženicyn avvicina l’esperienza del Gulag per così dire in filigrana, da punti di vista e con finalità che non sono esclusivamente documentarie, ma allegoriche o anagogiche (lo rileva Carlo Bo in un perspicace cameo apparso nel 1974 sul «Corriere della Sera»). Solženicyn trasfigura in occasioni di rinascita le circostanze in apparenza più devastanti e proibitive, concepite per diminuire e annientare la dignità della persona; le privazioni più dolorose. L’esperienza del carcere, nella testimonianza che ne dà lo scrittore, si risolve così in modi diversi da quelli previsti dal carceriere. Non è un caso se il tono delle migliori pagine di Solženicyn è improntato a una gaiezza beffarda e inesplicabile, qualcosa che sembra avere la stessa natura della Grazia. Il “tema” primo e ultimo qui, se mai ne esiste uno, è il mistero della fermezza o dell’inviolabilità della «coscienza» individuale, della resistenza malgrado tutto.