Quanto Arbasino abbiamo letto! In casa ricordo le copertine dei libri pubblicati da Feltrinelli; poi da ragazzo, quando ho cominciato a comprare i suoi libri, quelle di Garzanti e di Einaudi, e, da adulto, quelle di Adelphi. Già la scelta dell’editore, mutato nel corso dei decenni, indica le grandi capacità tattiche di Arbasino: essere al posto giusto nel momento giusto.

Dopo gli anni di scuola a Voghera, studiò legge a Pavia dove imparò, secondo me, a prendere bene gli appunti. L’arte della tachigrafia, saper rendere il parlato/scritto, avere orecchio per la lingua, le mode e i fenomeni culturali, per poi spesso sbeffeggiarli, nasce da lì. L’esordio avvenne nel 1957 con una raccolta di racconti, Le piccole vacanze, seguita da Calvino come editor, ma il primo libro memorabile è L’anonimo lombardo (1959), in cui rievoca con stile mimetico la Milano anni Cinquanta attorno alla Scala. Arbasino è bravo a scegliersi i maestri: Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, oggi considerati i vertici del XX secolo letterario. Del primo utilizza il correlativo oggettivo, il saper tradurre le immagini in parole (per Longhi le opere d’arte, per Arbasino il mondo mediatico e di parole che lo circonda); dal secondo l’inesausto sperimentalismo. Flaiano, che pure gli era amico, definì Arbasino: “un bambino in pasticceria”, per prendere in giro la frenesia che lo ha sempre contraddistinto. Si frequentarono a Roma dove nel frattempo Arbasino era approdato. È la Roma della Dolce vita e lo scrittore lombardo sa raccontarla, come racconta gli incontri letterari che fa a Parigi (Parigi, o cara), Londra (Lettere da Londra), New York (America amore).

I viaggi all’estero sono la messa in pratica del suo articolo su La gita a Chiasso (1963), in cui sprona la nostra cultura a essere meno provinciale. Il suo è un giornalismo letterario sperimentale, mobilissimo linguisticamente, legittimato dalla sua appartenenza, senza troppa enfasi, al Gruppo 63. Il 1963 è anche l’anno del suo romanzo più importante, Fratelli d’Italia, che conosce due riscritture, altra pratica arbasiniana, nei decenni successivi. Il libro è una sorta di road movie letterario, o letteratura in movimento, nell’Italia del boom. Arbasino è un libertino, settecentesco nei modi (facile immaginarselo in parrucca), con tutte le qualità dell’osservatore di costume e di etnografo sociale che la cosa comporta. Il libro è però inferiore a La dolce vita e Otto e mezzo come fotografia di quel momento storico. Arbasino è stato un grande saggista sia rimontando – montaggio altra parola chiave per comprenderlo – le sue interviste sia i suoi interventi in Sessanta posizioni e in Certi romanzi. Sono libri dove è costante l’aggiornamento sugli strumenti critici internazionali - sono gli anni dello strutturalismo - e dove c’è una rilettura della storia della letteratura italiana recente, a partire da un filone liberty che ha in Dossi il suo perno.

Negli anni Settanta, passa, con timing perfetto, a collaborare con “Repubblica”, un giornale laico che lo rappresenta bene - fu anche per una legislatura deputato per il Pri – anche perché Arbasino sbertucciò sempre la seriosità della cultura comunista. Memorabile è In questo stato, il suo libro sui giorni del rapimento Moro, opera costruita sull’accumulo di materiali, che suona anche come un congedo dalla belle époque italiana.

Pur sempre presente con le cronache dei festival musicali, delle grandi mostre in giro per il mondo, dei musical di Broadway o dello West End, è chiaro che dopo la scomparsa dei grandi scrittori nati nel primo quarto del XX secolo, la sua figura diventa centrale nel panorama letterario italiano. Ora pubblica da Adelphi, è diventato il testimone di una stagione sempre più mitizzata della nostra cultura, viene omaggiato da critici e scrittori delle generazioni più giovani. Esce anche un Meridiano doppio di cui cura la cronologia. Anche se può essere ancora brillantissimo (La vita bassa, 2008), quando si scatena nei suoi infiniti elenchi di luoghi comuni che si deformano man mano che procede, si coglie qualche segno di senescenza nel libro peraltro bello dedicato a Gadda (L’ingegnere in blu, 2008). Nella seconda parte del volume comincia all’improvviso a parlare dei suoi parenti di Voghera, ricadendo un po’ nel provincialismo da lui sempre stigmatizzato. Così come non è perfettamente a fuoco, per un eccesso di accumulo, il libro che raccoglie i suoi incontri con i grandi personaggi italiani del XX secolo (Ritratti italiani, 2014).

Difficile vivere da “venerato maestro”! Però quanto ci mancherà, quanto continueremo a citarlo.