C’è qualche piccolo segnale positivo nell’economia italiana, prodotto prevalentemente da cause esterne (prezzo del petrolio, cambio debole dell’euro, azione della Bce). D’altra parte, è da fuori confine che sono venuti tanti nostri guai recenti, ed è bene che da fuori confine venga qualche sollievo. Prendiamone atto, ma tuttavia senza gioire troppo. Il passo della ripresa è ancora debolissimo e soprattutto incerto; la distanza da recuperare, ad esempio in termini di posti di lavoro, ancora enorme; le cause, politiche ed economiche, della depressione europea e italiana sono ancora lì. Non è, con certezza, l’inizio di una vigorosa ripresa.
Ma un miglioramento, per quanto piccolo, aiuta: ricostruisce un po’ di fiducia; chissà se può provocare una ripresa di consumi e investimenti. Di più: può far riflettere sul nostro futuro senza l’assillo del brevissimo termine. E proprio questo ci serve: l’Italia non è solo vittima della depressione europea e delle folli politiche dell’austerità permanente che si stanno seguendo; è anche vittima di sue proprie debolezze e incertezze, ben visibili già almeno da inizio secolo, prima che la crisi internazionale e poi europea ci coinvolgesse.
Qui arriviamo su un terreno un po’ sconnesso: non c’è quasi aspetto della vita collettiva su cui non si annunci un processo di riforma. “Riforma” è diventata una parola magica, onnipresente; anche se a dir la verità il suo significato si è assai trasformato rispetto all’uso corrente nel passato; è diventato sinonimo di cambiamento in sé, senza che a volte ne siano chiare le motivazioni profonde, le finalità, le conseguenze distributive e sulla vita dei cittadini. Senza che siano chiare priorità e almeno qualche tratto di un disegno di una società e di un’economia che si vuole costruire; di un’Italia a cui si vuole arrivare.
Stranamente però, nel supermarket delle riforme sembra chiuso il reparto più pregiato: quello degli interventi che possono avere un effetto più forte, e duraturo, sulla crescita economica. L’investimento nell’istruzione è in Italia modestissimo in comparazione internazionale, e decrescente: in particolare non è chiaro – dopo la scriteriata cura da cavallo degli ultimi anni – se e quanto l’università italiana possa quantomeno sopravvivere in futuro. Come invertire questa tendenza autolesionistica? L’investimento pubblico netto nel nostro Paese negli ultimi anni è diventato negativo; in altri termini i modestissimi nuovi investimenti non compensano nemmeno l’obsolescenza del capitale pubblico disponibile, sia esso strade, scuole o edifici pubblici nelle città. Che così si riduce, in quantità e in qualità: cosa pessima in sé, ma ancor più grave perché riduce qualità della vita dei cittadini e competitività delle imprese. Si parla di banda larga: bene. Ma non si vedono tracce di una strategia di rilancio complessiva, della logistica o delle ferrovie, delle città o della messa in sicurezza del territorio. Ancora, e infine, non c’è traccia di una moderna politica industriale. Il nostro sistema produttivo abbisogna di una forte manutenzione straordinaria, che lo prepari ad affrontare con successo i prossimi lustri. All’estero, ovunque (a cominciare dalla Germania) si disegnano strategie e si mettono in atto potenti azioni per potenziare ricerca, innovazione, crescita internazionale. Da noi si fa un piccolo cabotaggio: in alcuni aspetti non negativo, ma certamente incommensurabile rispetto alla sfida dei tempi.
Usiamo bene i primi piccoli numeri positivi: non per aspettare seduti che ne arrivino migliori, ma per riprendere fiato, e ricominciare a parlare – in pubblico, ad alta voce, sulla base di fatti ed indicazioni precise – di un pezzo fondamentale di riforme che ci servono per restare uno dei Paesi leader del mondo.
Riproduzione riservata