Il mese scorso i giornali italiani riportavano un articolo del 15 febbraio pubblicato dal sito inglese Open Democracy nel quale, dopo un’ indagine tra 100 esperti inglesi di politica italiana, si ponevano dieci domande al più grande partito d’opposizione, il Pd, su come avrebbe gestito il dopo-Berlusconi. Alcune erano rivolte al passato (ad esempio le ragioni della mancata iniziativa sulla nota dolente del conflitto d'interessi), ma quelle più importanti riguardavano il futuro, i valori ai quali ispirare l’azione politica, l’esistenza di una “visione” e di un’idea di giustizia sociale. L’ultima poneva, infine, il problema di un possibile Obama italiano con il carisma adeguato per dare agli italiani il senso di un reale cambiamento. {C}È inutile negare che quelle domande sottendevano una critica all’incapacità del Pd di offrire una reale alternativa all’elettorato, di guardare al di là del giardinetto (pieno di spazzatura è proprio il caso di dirlo in questi giorni) della politica italiana e quindi al rischio di apparire troppo omologato e poco innovativo in un sistema che in realtà avrebbe bisogno di una cura da cavalli (e forse non basterebbe).
Che questa critica sia fondata lo dimostrano le difficoltà del Pd che, dopo la straordinaria e non a caso subito finita nel dimenticatoio, fase di nascita, fatica a offrire un’ immagine di speranza al suo popolo e a tutti coloro che sembrano sempre più rassegnati ad una sorta di cinismo passivo nei confronti del costante deperimento della vita politica.
Esistono indubbiamente problemi a tutti noti che rendono la vita difficile nel nostro paese a una forza d'opposizione, ma è altrettanto indubbia la mancanza proprio, come dicono gli inglesi, di una visione o per meglio dire di qualche idea forte che mobiliti, coinvolga, emozioni.
E non si tratta solo e soltanto di rinnovamento di classi dirigenti, anzi, spesso vengono riproposti piatti già abbondantemente cucinati e ricucinati, insaporiti magari con un pizzico di giovanilismo di maniera che nasconde in realtà molta muffa. Più che di nuove generazioni si sente la mancanza di nuove idee, che non spuntano come i classici conigli dal cappello, ma che presuppongono innanzitutto capacità di ascolto, analisi ed elaborazione, e infine traduzione in messaggi facilmente percepibili e possibilmente coinvolgenti. Cose tutte difficili e che comportano l’avventurarsi su territori spesso inesplorati con molti rischi di errori, ma il pericolo speculare è quello di rimanere fermi e farsi invischiare in una sorta, per usare un termine di moda, di “gelatina” politica.
Spulciando sullo stesso sito delle dieci domande, ho trovato un altro articolo che indirettamente può darci una risposta. Thomas Hash in Changing Politics si riferisce al senso di stanchezza e apatia dei sudditi di Sua maestà in vista della prossima scadenza elettorale, e si chiede come superare l’anti-politics mood. E cita due iniziative, Battle of Ideas e Power 2010. Si tratta di due tentativi di favorire e sviluppare un nuovo approccio alla discussione e maturazione della partecipazione pubblica. I rispettivi siti internet raccontano con dovizia di particolari la storia, le finalità e le caratteristiche di queste iniziative; giusto per fare un esempio Power 2010 ha organizzato un pubblico appello alla raccolta di idee guida per le prossime elezioni, selezionando quelle ritenute più qualificanti e originali per poi sottoporle a discussione.
Sono modalità ovviamente non automaticamente esportabili, ma testimoniano di una tensione verso la ricerca di strade alternative ai tradizionali ingredienti dell’agire politico che tanta disaffezione al di qua e al di là della Manica hanno generato.
Qualcuno potrebbe dire che parlare di queste cose quando la scena pubblica è avvelenata dalla corruzione e dall’uso disinvolto delle regole è puro esercizio di stile di ingenui utopisti, ma forse è venuto il momento di chiedersi, anche per i più realisti del re, se un po’ di utopia non ci faccia bene e soprattutto non sia molto più redditizia in termini elettorali per società ormai stanche, avvilite e narcotizzate dalla sempre più invadente comunicazione televisiva.
Riproduzione riservata