Oltre un secolo fa, il barone Pierre de Coubertin – nel reinventare i moderni giochi olimpici – affidava ai posteri il motto che lo ha reso celebre: «L’importante non è vincere, ma partecipare!». Mi si perdonerà questo incipit, ma nulla meglio del pensiero decoubertiniano può sintetizzare come non funziona la politica italiana di questo ultimo quinquennio.

Al netto del solitario exploit rappresentato dal referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre, infatti, la pericolosa china intrapresa dal fenomeno dell’astensionismo non pare per nulla in procinto di arrestarsi, né di diminuire. Tutt’altro. Se, ad esempio, si prendono a riferimento gli appuntamenti elettorali che si sono succeduti nel corso degli ultimi cinque anni – comunali 2012, politiche 2013, europee 2014, regionali 2015, comunali 2016 e, ora, 2017 – in tutte le occasioni il dato relativo alla partecipazione elettorale è stato inferiore a quello della tornata precedente. In più, si ricorderanno i casi clamorosi delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, che nel novembre di tre anni fa videro la partecipazione di meno di quattro elettori su dieci. Se, come si dice di solito, bastano tre indizi per fare una prova, in questo caso l’impianto probatorio spaventerebbe i più grandi principi del foro.

D’altronde, in Italia la partecipazione elettorale sembra non avere difensori particolarmente combattivi: da un lato, i cittadini si interessano sempre meno e sempre più di malavoglia, privi di particolari slanci ideali, indifesi nei confronti della crisi e, passatemi il termine un po’ rude, «incattiviti» da questa. Dall’altro, i partiti (tutti i partiti, anche quelli che fingono di non esserlo) sembrano fare a gara a deprimere qualsiasi (eventuale) slancio partecipativo, evidenziando ogni giorno una dose probabilmente eccessiva di inconcludenza, litigiosità e mancanza di una qualunque visione che vada oltre il qui e ora.

Intendiamoci: il fenomeno è di lungo periodo, e fondamentalmente prescinde da attori e dinamiche di questi ultimi anni. Ha infatti a che fare con la scomparsa dei partiti di massa, con l’assenza di formazioni politiche dai contorni ideologico-programmatici ben delineati e, a ciò connesso, con il relativo attenuarsi della «fedeltà» elettorale. Si può addirittura sostenere sia in una qualche misura connaturato a un certo individualismo esasperato che sempre più permea le moderne società occidentali, nonché, in maniera speculare, al diffondersi di pratiche di mobilitazione politica sempre più differenziate, inusuali ed eterodosse, che proprio nell’astensione elettorale vedono – tra le altre – una (legittima) forma di lotta politica. Tuttavia, il fatto che proprio negli ultimi anni abbia assunto dimensioni precedentemente ignote deve far riflettere e preoccupare la classe politica nella sua interezza, di certo non priva di responsabilità.

Andamento della partecipazione elettorale nei 160 comuni superiori ai 15 mila abitanti al voto nel giugno 2017 (valori percentuali)

Fonte: Istituto Cattaneo. 

Sia come sia, le amministrative dell’11 giugno hanno dunque rappresentato un ulteriore passo nella direzione della disaffezione dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni: se vogliamo lasciar parlare i crudi numeri, nei 160 comuni superiori ai 15 mila abitanti l’affluenza si è fermata al 61,5%, mentre nella tornata precedente si era assestata al 68,1, evidenziando dunque un calo di 6,6 punti percentuali. Si tratta, in termini assoluti, di quasi mezzo milione di astenuti in più: cittadini che nemmeno nell’arena locale – solitamente considerata, tra le elezioni cosiddette di secondo ordine, quella che maggiormente incentiva la partecipazione (in ragione della vicinanza della posta in gioco, per la maggiore capacità dell’elettore di influenzare il risultato, per il ruolo delle reti sociali locali nella costruzione del consenso) – hanno trovato il tempo e la voglia di recarsi alle urne per esprimere la propria preferenza.

Tuttavia, questi dati raccontano dinamiche diverse nelle varie aree geo-politiche del Paese. Le diminuzioni più significative della partecipazione si osservano, infatti, nelle regioni del Nord (sia a Est che a Ovest) e del centro «rosso» (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria), mentre nel Meridione non soltanto l’aumento del non-voto è molto più contenuto, ma l’affluenza continua a essere significativamente maggiore che non nelle regioni del Nord, incluse quelle regioni «rosse» considerate un tempo la terra del civismo e della diffusa partecipazione politica.

Non sono certo dinamiche che sorprendono: al Sud, molto più che nel Settentrione, la scomparsa dei partiti tradizionali ha avuto un effetto meno consistente sulla partecipazione perché il voto era ed è più condizionato da rapporti locali/istici tra i candidati e gli elettori. Non è dunque sorprendente. È, tuttavia, potenzialmente rischioso, perché ci troviamo nella paradossale situazione di dover scegliere tra due mali: da una parte, la crescente disaffezione e il disinteresse per la politica, sempre più vissuta come distinta e distante, se non apertamente ostile, percepita come del tutto incapace di determinare un qualche miglioramento tangibile nella vita quotidiana delle persone; dall’altra parte, il fatto che il maggior argine a tale dinamica sia rappresentato da dinamiche il più delle volte clientelari di mantenimento e coltivazione del consenso, le cui conseguenze di medio-lungo periodo potrebbero impattare ancora più negativamente sull’insoddisfazione che i cittadini attualmente provano nei confronti del funzionamento delle istituzioni.

Ci troviamo, insomma, all’interno di un circolo vizioso dal quale è assai problematico uscire. Ma occorre farlo. Senza voler esagerare le conseguenze negative di un ulteriore incremento dell’astensione – in fin dei conti, da un punto di vista comparato i livelli di partecipazione italiani sono tuttora piuttosto alti – la prospettiva che una parte sempre crescente di popolazione non trovi in nessuno degli attori politico-partitici una credibile opzione di rappresentanza non potrà che lacerare sempre più un tessuto sociale già messo a dura prova dalla crisi di questi anni.

Per chiudere laddove si era cominciato: l’insegnamento di de Coubertin è sempre valido, e l’importante, più che vincere, è (ritornare a) partecipare. Tuttavia, mi si conceda lo slancio retorico, precisamente ricominciare a partecipare è la vera sfida da vincere.

 

[Questo contributo è frutto del lavoro di analisi del gruppo di ricerca elettorale che fa capo all’Istituto Carlo Cattaneo]