Il 13 luglio 2016, all’età di ottantatré anni, Bernardo Provenzano moriva in un reparto protetto dell’ospedale San Paolo di Milano, nel quale era stato ricoverato oltre due anni prima a causa del progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Benché gravemente malato e in stato vegetativo, il detenuto continuava a essere sottoposto al regime carcerario differenziato previsto dall’art. 41-bis (c. 2 ss. della legge n. 354 del 1975, c.d. ordinamento penitenziario), applicatogli immediatamente dopo la sua cattura (11 aprile 2006) e ininterrottamente prorogato, addirittura poche settimane prima del decesso. La condanna dell’Italia pronunciata all’unanimità dalla prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) su ricorso proposto dai familiari del detenuto censura l’automatismo delle proroghe ed è l’occasione per riflettere sui rapporti tra regimi carcerari “di rigore” e condizioni di salute della persona in vinculis.
La condanna dell’Italia pronunciata dalla Cedu su ricorso dei familiari di Bernardo Provenzano è l’occasione per riflettere sui rapporti tra regimi carcerari “di rigore” e condizioni di salute della persona in vinculis
Il regime carcerario differenziato. Inserito nella legge di ordinamento penitenziario tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’art. 41-bis ord. penit. attribuisce al ministro della Giustizia, in presenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica e anche a richiesta del ministro dell’Interno, la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti contemplati dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La norma, inizialmente inserita in via provvisoria, è stata stabilizzata nel 2002 e successivamente modificata – in senso restrittivo – nel 2009, quando, oltre ad ampliarne l’ambito soggettivo (condannati e imputati), sono stati previsti ulteriori inasprimenti del regime carcerario ed è stata neutralizzata la discrezionalità del giudice in nome di una più marcata connotazione amministrativa del procedimento applicativo, che ha condotto all’emanazione di una circolare “omnibus” il 2 ottobre 2017. Con riferimento alla durata del regime differenziato, l’art. 41-bis prevede che il decreto applicativo si applichi, in prima battuta, per la durata di quattro anni e sia prorogabile ad libitum per ulteriori periodi di due anni. Per espressa previsione legislativa, la proroga è disposta «quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno».
Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ricorso, depositato dai familiari di Provenzano nel luglio del 2013, previo esaurimento dei ricorsi contemplati dalla legge italiana, lamentava (§ 101) la violazione dell’art. 3 Cedu (che vieta la tortura, nonché la sottoposizione a pene o a trattamenti inumani o degradanti) sotto un duplice profilo. Da un lato (§§ 117 ss.), infatti, si denunziava l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute del ricorrente, rispetto alle quali non sarebbero state garantite adeguate cure e benessere (well-being); dall’altro lato, invece, veniva censurata la decennale sottoposizione a regime carcerario differenziato, nonostante l’età avanzata e le gravi condizioni di salute. Provenzano era da tempo affetto da encefalopatia vascolare, morbo di Parkinson e ipertensione arteriosa. Nel dicembre 2012, a seguito dell’asportazione di un ematoma subdurale, il detenuto aveva progressivamente manifestato una ridotta consapevolezza e reattività nei confronti dell’ambiente circostante, unitamente a una limitata capacità di esprimersi.
Trasferito dapprima nel centro diagnostico e terapeutico del carcere di Parma e, successivamente, in quello di Milano, Provenzano aveva evidenziato un repentino peggioramento delle proprie condizioni di salute, tanto da indurre l’amministrazione penitenziaria, nell’aprile del 2014, a trasferirlo nel reparto protetto dell’ospedale San Paolo di Milano, dove morirà poco più di due anni dopo. A seguito del rigetto di tutte le istanze presentate dai suoi difensori, volte a ottenere sia il differimento dell’esecuzione per motivi di salute (artt. 146 e 147 c.p.), sia la revoca del regime carcerario differenziato, il “41-bis” veniva prorogato anche in ospedale e senza eccezioni: video-sorveglianza continua e un unico “contatto” mensile con i familiari al di là di un vetro blindato. I colloqui erano, infatti, consentiti solo tramite citofono, avvicinato all’orecchio del boss – ormai in coma, cateterizzato e alimentato artificialmente – da un agente del gruppo operativo mobile. In particolare, il ministro della Giustizia prorogò il regime di “carcere duro” sia nel marzo 2014, sia nel marzo 2016 (qualche mese prima della morte di Provenzano), non prendendo in considerazione alcuna la cartella clinica di un malato terminale, ma recependo acriticamente le relazioni di alcune direzioni distrettuali antimafia, le quali, a differenza di altre, avevano insistito sulla persistente capacità di Provenzano di inviare messaggi all’esterno. Anche l’ultima istanza per una morte “libera”, presentata due giorni prima del decesso, fu rigettata dal magistrato di sorveglianza di Milano.
Il ministro della Giustizia prorogò il regime di “carcere duro” sia nel marzo 2014, sia nel marzo 2016 (qualche mese prima della morte di Provenzano), non prendendo in considerazione alcuna la cartella clinica di un malato terminale
La decisione europea. Con la sentenza del 25 ottobre 2018 (che potrà essere impugnata entro tre mesi dal governo italiano mediante richiesta di rinvio alla Grande Camera), la Corte europea ha accolto solo parzialmente le doglianze formulate dal ricorrente, escludendo che il regime carcerario differenziato sia ontologicamente incompatibile con la convenzione europea e che l’amministrazione penitenziaria italiana abbia prestato al detenuto cure inadeguate. Tuttavia – è questo l’aspetto di rilevante novità –, i giudici di Strasburgo hanno individuato la violazione della norma convenzionale nella mancanza di un’autonoma valutazione, da parte del ministro della Giustizia, della situazione cognitiva del ricorrente in rapporto alla valutazione di persistente pericolosità operata dal medesimo organo (§§ 156-157). In particolare, poiché nell’ultimo provvedimento di proroga – a differenza dei precedenti – era carente la motivazione relativa al rapporto tra progressivo deterioramento cognitivo del detenuto ed “attualità” del pericolo di rapporti con l’esterno, la Corte europea ha ritenuto che il governo italiano non abbia dimostrato in modo convincente la necessità di prorogare il regime carcerario differenziato a fronte della peculiare situazione sanitaria del detenuto. Da tale considerazione, i giudici di Strasburgo hanno individuato la violazione dell’art. 3 Cedu, a causa della mancanza della doverosa considerazione del peggioramento delle condizioni cognitive di Provenzano. Con riferimento al danno non patrimoniale, la Corte europea ha rigettato la domanda di risarcimento pecuniario avanzata dai familiari, reputando del tutto soddisfacente la declaratoria di violazione convenzionale.
La decisione in commento, unitamente alla quasi trentennale elaborazione della Corte costituzionale italiana, impone la riapertura di un dibattito colpevolmente trascurato sia in ambito politico-legislativo sia nelle sedi accademiche. Nonostante, infatti, le evidenti criticità che l’art. 41-bis ord. penit. continua a evidenziare sul piano convenzionale (artt. 3, 6 § 1, 8 e 13 Cedu) e su quello costituzionale (artt. 3, 13 commi 2 e 4, 27 commi 2 e 3, 32), il tema del regime carcerario differenziato continua a rimanere in ombra, volutamente ignorato dalla più recente agenda parlamentare e sistematicamente trascurato dal dibattito scientifico avente per oggetto la natura e la fenomenologia della sanzione penale. Inoltre, benché la norma penitenziaria sia una “vecchia conoscenza” del Comitato Onu contro la tortura e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, essa viene sistematicamente “graziata” dai giudici interni anche sulla base di ragionamenti difficilmente condivisibili, che fanno leva sulla sua natura preventiva anziché penale.
Anche le tendenze riformatrici, ispirate dal Rapporto sul regime detentivo speciale, presentato nella passata legislatura dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e sottese ai Lavori del Tavolo 2 degli Stati generali sull’esecuzione penale, si sono arenate sul veto del legislatore delegante il quale, nel corso della navette parlamentare affrontata dalla legge n. 107 del 2017, ha espressamente abdicato a qualsivoglia prospettiva riformatrice nei confronti del regime carcerario differenziato e più in generale – art. 85, comma 1, lett. b ed e – per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale. Resta, tuttavia, incomprimibile – almeno a parere di chi scrive – un diritto a morire dignitosamente. In libertà. E questo diritto (e lo afferma anche la nostra Corte di cassazione nella vicenda Riina) non può essere negato. Nemmeno ai boss. Proprio perché lo Stato punisce, ma non si vendica.
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