Tante sono le cime che superano altezze vertiginose, in quella parte di mondo a Nord della penisola indiana, che all’inizio vennero numerate senza troppi fronzoli. Così il nome della seconda montagna per altezza dopo l’Everest, il K2 (8.611 metri sul livello del mare), si richiama alla catena del Karakorum, che in turcomanno significa ghiaia, area coperta di detriti (korum) neri (kara). Da K(arakorum) derivano infatti le sigle impiegate dall’Ufficio topografico indiano per designare quelle vette. Il K2, che i locali hanno sempre chiamato Dapsang o Chogori, è rimasto per lungo tempo inviolato. E questo è più o meno noto. Meno note sono le vicende che, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, portarono alla sua conquista, dopo una serie di tentativi falliti e molte esplorazioni per scoprire poco alla volta la conformazione di quei luoghi inospitali e remoti.
Erano trascorsi neppure dieci anni dalla fine della Seconda guerra mondiale quando, il 5 aprile del 1954, lasciarono il porto di Genova per il Pakistan i componenti della spedizione che avrebbe portato – guidata da Ardito Desio, uomo figlio del Ventennio, considerato negli anni seguenti in buona parte responsabile delle polemiche successive alla conquista – due alpinisti italiani, per primi, in cima al K2. Da Karachi, una volta raggiunta questa, tutti coloro che avrebbero fatto parte della squadra di scienziati, alpinisti e accompagnatori, l’enorme fardello di attrezzatura e viveri, stimato in un peso complessivo di circa 16 tonnellate, avrebbero dovuto raggiungere Rawalpindi, poi Skardu, grazie a un uso al limite delle possibilità degli aerei di allora a quelle quote. E da lì, in spalla agli oltre 500 portatori di etnia baltì, che si caricavano via via sacchi dai 25 ai 30 chili, sino al campo base della spedizione. E poi ancora a spalla (o con qualche teleferica costruita sul posto con mezzi di fortuna) nei campi più in alto, per rifornirli di viveri e di ogni necessità.
Solo un anno prima l’ennesimo tentativo da parte degli americani era fallito: avevano liberato l’Europa dal nazifascismo ma si erano dovuti arrendere alle difficoltà tecniche di quell’impresa alpinistica. La spedizione guidata dal medico newyorkese Charles Houston si era dovuta fermare. Nel valutare oggi quelle vicende, vanno considerati gli equipaggiamenti tecnici a cominciare dal vestiario e dalle attrezzature in roccia, per non parlare delle protezioni dalle temperature, per la salita e per i bivacchi. Le bombole di ossigeno erano pesantissime e con una autonomia assai limitata; le comunicazioni via radio erano affidate ad apparecchi ingombranti e di un peso superiore a diversi chili (la radio «portatile» per chi, durante l’ascesa, doveva comunicare con quello più in quota dei diversi campi allestiti ne pesava due). Mancavano poi del tutto strumenti sufficientemente affidabili per le previsioni meteorologiche, che venivano lasciate all’esperienza dei singoli o, al più, alle letture barometriche. Così, si poteva assistere a repentini mutamenti del tempo e delle temperature, che portavano non di rado gli arti a princìpi di congelamento se non alla perdita della vita. In queste condizioni, non deve stupire che molte spedizioni precedenti a quella italiana del ’54 dovettero rinunciare, pur risultando preziose per la raccolta di informazioni, grazie a rilievi (non ancora fotogrammetrici) per lo più topografici e fotografici. È il caso, ad esempio, di quella organizzata da Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, cui si deve il nome dello sperone di roccia che divenne poi la via «normale» per l’ascensione al K2 sul versante Sud Est a quota 7.500 metri. Era il 1909!
I preparativi della spedizione furono lunghi e meticolosi, resi particolarmente complicati dalla politica. Quella pakistana, che sembrava non voler concedere l’autorizzazione per l’impresa e lo fece solo tardivamente, anche in seguito all’azione dell’allora primo ministro italiano De Gasperi; quella italiana, dal momento che pochi mesi prima della partenza il governo cadde, lasciando a metà diversi iter burocratici. Non fu facile trovare i fondi (oltre 80 milioni dell’epoca, equivalenti a circa 1 miliardo e 250 milioni di euro attuali), che vennero raccolti in primo luogo dal Cnr (50 milioni) e da altri enti, come il Coni (20 milioni) e il Cai, che sostennero la spedizione.
Alle difficoltà organizzative – tecniche ed economiche, ma anche politiche – si affiancò, per certi versi inaspettatamente, un grande interesse da parte del pubblico. Al ritorno al porto di Genova i membri della spedizione furono accolti da quarantamila persone
Alle difficoltà organizzative, che poi si sciolsero mano a mano producendo un cronoprogramma quasi maniacale, si affiancò anche, per certi versi inaspettatamente, un grande interesse da parte del pubblico, che si appassionò all’evento ancora prima di potere apprendere il successo finale. Nei mesi che precedettero la partenza, dunque, la spedizione si caricò di un significato fortemente nazionalistico. L’idea che un popolo di montanari spiantati come il nostro potesse in pochi anni trovare le risorse economiche e le capacità scientifiche per mettere in piedi un’impresa del genere fu un carburante straordinario negli anni della grande ripresa post-bellica. Tutto questo in assenza dei moderni mezzi di comunicazione, senza cui le notizie a radio e giornali arrivavano con grande ritardo e scarsa regolarità. Famosa la copertina della «Domenica del Corriere», che riporta l’illustrazione di Walter Molino con il tricolore in vetta alla grande montagna fino allora inviolata. Scrisse Dino Buzzati, egli stesso alpinista, sul «Corriere della Sera»:
«Hanno vinto! Da parecchi anni gli Italiani non avevano avuto una notizia così bella. Anche chi non si era mai interessato d’alpinismo, anche chi non aveva mai visto una montagna, perfino chi aveva dimenticato che cosa sia l’amor di patria, tutti noi, al lieto annuncio, abbiamo sentito qualche cosa a cui si era persa l’abitudine, una commozione, un palpito, una contentezza disinteressata e pura. E con la fantasia abbiamo cercato di vedere i due vittoriosi sul pinnacolo ultimo del colosso diecimila volte più grande di loro. E i compagni appollaiati sugli spalti della ciclopica parete, simbolo minuscolo di un esercito schierato in profondità per la battaglia decisiva: tutti bravissimi, tutti degni di essere citati all’ordine del giorno del Paese. “Gloria”, “trionfo” sono le parole che gli Inglesi, per cui l’antiretorica è legge nazionale, hanno adoperato senza risparmio l’anno scorso quando venne vinto l’Everest. Perché oggi non dovremmo usarle noi?».
Ecco il sentimento di orgoglio nazionale che accompagnò l’impresa, che pure lasciò sul terreno la vita di uno degli alpinisti, Mauro Puchoz, morto nelle prime settimane per un edema polmonare e sepolto là dove già erano i resti dell’americano che aveva perduto la vita durante la spedizione del ’53, Arthur Gilkey.
Gli italiani erano riusciti a conquistare la seconda montagna più alta del mondo. Ma, nei cinquant’anni che seguirono, sono riusciti a rovinare quell’impresa
La storia della conquista italiana del K2 fu, come si diceva all’inizio, guastata dalle polemiche e dalle accuse pesantissime che, nella relazione ufficiale della spedizione, vennero rivolte a Walter Bonatti, il più giovane del gruppo (compì 24 anni in quei giorni) e all’alpinista hunza Amir Mahdi di non aver voluto collaborare nelle ultime fasi dell’ascensione, mettendo a repentaglio il successo e soprattutto la vita dei due compagni che poi saliranno in vetta, Compagnoni e Lacedelli. In realtà, come verrà ampiamente dimostrato da una commissione voluta dal Cai molti anni dopo, di cui fece parte anche Fosco Maraini, furono proprio Bonatti e Mahdi a portar all’ultimo bivacco in quota i respiratori e le bombole che poi servirono ai due compagni, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Bonatti e Mahdi, quest’ultimo in stato confusionale, passarono la notte tra il 30 e il 31 luglio all'aperto, scavandosi con le picozze uno scalino nel ghiaccio e affrontando un bivacco senza tenda né sacchi a pelo con temperature di 50 gradi sotto zero, per di più colpiti da una violenta bufera. Il racconto drammatico di quelle ore venne fatto per la prima volta dallo stesso Bonatti nel suo Le mie montagne, un libro che ancora oggi si può trovare abbastanza facilmente e che merita di essere letto, anche da chi non ha una particolare passione per l’alta montagna.
Gli italiani erano riusciti a conquistare la seconda montagna più alta del mondo. Ma, nei cinquant’anni che seguirono, hanno minato il valore ideale di quell’impresa con polemiche e omissioni che non fanno onore alla fatica e all’impegno di chi ha permesso un risultato storico come la conquista del K2. Né allo spirito stesso di solidarietà e amicizia che dovrebbe segnare tutte le avventure in montagna, anche le più grandi.
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