È la mattina del 4 novembre 1966 e dopo giorni di piogge incessanti l'Arno rompe gli argini, inondando Firenze, da Rovezzano a S. Salvi, passando per Gavinana e il centro storico. Più di 70 milioni di metri cubi d'acqua traboccano, causando una devastazione diffusa. Le conseguenze sono devastanti: molte case, negozi e monumenti vengono sommersi dall'acqua. Numerose le opere d'arte danneggiate, milioni i libri sommersi, e migliaia di veicoli trascinati via. La tragedia porta alla perdita di 35 vite umane, e quasi 20.000 famiglie vengono colpite dall'alluvione, mentre altre 4.000 restano senza casa. La città rimane completamente isolata con l'interruzione dei servizi telefonici ed elettrici e la chiusura delle autostrade e delle ferrovie. Non c'è una struttura di protezione civile che possa monitorare e rispondere a situazioni di emergenza. Solo verso sera, dopo una lunga giornata di inondazioni, l'acqua inizia a ritirarsi, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e fango in una città alle prese con il buio e il freddo.
Nell’Italia del pieno “boom economico”, che preferisce credere nell’ineluttabilità delle “catastrofi naturali” per “lanciarsi verso il futuro” oscurando le denunce giornalistiche e le analisi tecnico-scientifiche che già correlavano catastrofi e assetti territoriali, quell’alluvione si afferma come tale perché, oltre e forse più che i morti, colpiscono i danni al patrimonio storico-artistico, architettonico e culturale, con gli “Angeli del Fango”, giovani, artisti e operatori culturali, che da tutto il mondo accorsero a salvare i beni “Patrimonio mondiale dell’umanità”.
In realtà la devastazione, oltre alla città storica, interessa l’intera Piana fiorentina e larghi ambiti toscani: su bacini già gonfi per precedenti piogge, si riversano precipitazioni prolungate quanto eccezionali. Oltre all’Arno, che straripa in più punti, anche nel pisano e nell’aretino, esondano i fiumi Bisenzio e Ombrone interessando l’intera Piana; compresi i rilievi, con lo straripamento della Sieve. Peraltro, altri disastri territoriali negli stessi anni, come il Vajont, la Frana di Agrigento o l’alluvione con acqua altissima di Venezia significano immani tragedie umane e sociali.
Si tratta di eventi che, anziché come catastrofi “naturali”, si sarebbero dovuti interpretare e comprendere nella loro correlazione con la rottura, destrutturazione e destabilizzazione fisica e sociale dovuta a iperurbanizzazioni sfrenate di quei contesti. Ma la convergenza di interessi economici spesso estranei e lontani dalle esigenze delle popolazioni, l’entusiasmo per il Paese che si modernizzava, “diventando pienamente europeo e occidentale”, favoriranno invece la prosecuzione di forme di crescita economica “deterritorializzanti”: ignoranti e aliene rispetto alla necessità di trasformazioni spaziali rispettose delle regole ambientali e culturali di contesti e luoghi, per le quali il territorio era solo “spazio socialmente disponibile” per industrie più grandi e “agglomerate” nel Nord-Ovest del Paese prima, e per quelle del modello Nec (Nord-Est Centro) di piccola industrializzazione a urbanizzazione diffusa poi. Mentre il Sud, il cui patrimonio primario era declinante, cercava addirittura scenari storicamente avulsi dai suoi caratteri ecosistemici: i “grandi poli di sviluppo”, industriali e infrastrutturali, che spostassero al Sud grandi risorse economico-finanziarie – in una logica quindi assistenziale, tendente a diventare politico-clientelare – più che strategie utili ai tessuti sociali e ambientali presenti.
Si tratta di eventi che, anziché come catastrofi “naturali”, si sarebbero dovuti interpretare e comprendere nella loro correlazione con le iperurbanizzazioni sfrenate di quei contesti
A unificare questi approcci sarà il forte consumo di suolo, con l’ignoranza di ogni regola ecosistemica e l’illusione che urbanizzazione crescente e consolidata significasse tout court benessere e progresso sociale. Dinamiche che proseguiranno pressoché senza soluzione di continuità anche quando i processi di crescita legati ai modelli citati tendevano a spegnersi, lasciando spesso i territori in condizioni di grave crisi sociale, aggravata da quelle ambientali.
Negli anni Ottanta e Novanta, esaurita la spinta propulsiva dell’industrializzazione, la cementificazione è infatti proseguita, alimentata soprattutto dal terziario e da nuove domande infrastrutturali (spesso presunte), fino alla comparsa di “spralwtown” o città diffusa, in Italia, come e più che in Europa e in tutto l’Occidente.
Secondo i datascape Istat, l’Italia ha consumato suolo per quasi il 10% della sua superficie totale (poco meno di 30.000 kmq rispetto ai 301.000 kmq di totale nazionale) e, a fronte dei circa 7 miliardi di metri cubi necessari a fornire un tetto a tutti i presenti, compresi neonati e immigrati senza permesso, ha costruito volumi abitativi per più del doppio. Ispra ci dice che il 94% dei comuni italiani è a rischio frane o alluvioni, con 3,3 milioni di famiglie interessate (se si considera anche la sismicità viene interessato quasi tutto il Paese).
La “Megalopoli Padana” si estende ininterrottamente da Torino a Mestre, con la fascia di territorio compresa tra il Po e la statale 21 completamente urbanizzata. Da Chioggia a Bari si allunga la “macrocittà lineare adriatica”, dove il fenomeno del “Doppio pettine urbano” (risalita verso l’interno dell’urbanizzazione costiera che incontra e si salda con la discesa a valle dei borghi pedemontani) ha dato luogo a una conurbazione adriatica che si amplia dai litorali alle prime fasce pedemontane senza discontinuità. In Emilia, Toscana e nella campagna romana le grandi macchie di antropizzazione hanno occupato quasi interamente le pianure e le valli (il “Far West urbanistico” lungo la via Emilia, la Media città toscana che il Basso Valdarno tende a proiettare e saldare con le urbanizzazioni costiere, la campagna urbanizzata che da Roma si allarga ormai a tutto il Lazio di pianura). Nella “Campania Felix il verde è diventato grigio”. Più a Sud, le coste calabresi sono totalmente occupate, a fronte dello svuotamento dell’interno, mentre in Sicilia l’orrido ambientale da edilizia diffusa e degradata rompe urlando il tessuto di ambiti paesistici ancora notevoli, in una “schizofrenia territoriale”.
Anche prima della attuale crisi ecoclimatica, le dinamiche descritte, con continue e macroscopiche rotture di assetti ecologici e funzioni ecosistemiche e negazione dei preziosi servizi ad esse legate, hanno comportato disastri e degrado. La cementificazione incontrollata è stata spesso aggravata da veri e propri errori o addirittura obbrobri urbanistici: come la propensione a realizzare le infrastrutture lineari in rilevato nelle grandi piane, che in caso di forti piogge trasformano gli ambiti interessati in “piscine improprie”; la tombinazione o addirittura la cementificazione di fiumare e torrenti in molte aree, specie del Mezzogiorno, con le vie di fuga dell’acqua impedite e conseguenti esondazioni. Una costante è stata l’occupazione delle pertinenze fluviali, illusoriamente difese da argini “sempre più alti e armati”, ma regolarmente alluvionati in caso di piogge copiose, e l’edificazione su versanti planimetricamente e geologicamente inadeguati, che esasperano frane e crolli anche per precipitazioni appena più intense del solito. La crescita urbana, insomma, spesso si è dispiegata su ambienti incompatibili, per caratteri geometrici ed ecopaesaggistici, con eventi di rilievo sismici o alluvionali e franosi. Le catastrofi sempre più intense e ravvicinate di oggi sono una dimostrazione dei reiterati errori nella pianificazione e nella gestione dei territori di ieri.
La crisi ecoclimatica impone con urgenza un drastico cambio di rotta rispetto alle dinamiche descritte, ma questo si scontra con una storica inerzia del decisore istituzionale
La crisi ecoclimatica impone con urgenza un drastico cambio di rotta rispetto alle dinamiche descritte, ma questo si scontra con una storica inerzia del decisore istituzionale. Una decina di anni fa il Mise (ministero dello Sviluppo economico) valutava in circa 200 miliardi di euro la spesa necessaria a risanare e mettere in sicurezza il territorio nazionale dai rischi diversi, con apposito programma pluriennale. Sulla base di tali valutazioni, il governo Renzi lanciava il progetto “Casa Italia”, salvo abbandonarlo quando si comprese che non si trattava di realizzare un certo numero di “Grandi opere” ad alto impatto finanziario e mediatico, ma centinaia di piccole operazioni di restauro e ristrutturazione dei contesti ecosistemici destabilizzati dalla deterritorializzazione. Il Pnrr sarebbe stata l’occasione per almeno avviare tale tipo di strategia. Si rivela invece una grande occasione sprecata, se si pensa che anche le “briciole” di 4,5 miliardi di euro (il 2% del totale a fronte di decine di miliardi dedicati ancora a energia fossile e gradi opere infrastrutturali!) sono state quasi del tutto cancellate “per mancanza di progetti realizzabili”.
È invece assolutamente necessario che si metta finalmente mano a una gigantesca azione di risanamento e restauro del territorio nazionale. È più probabile però che questo possa avvenire per l’ampliarsi delle azioni di quelle migliaia di piccole realtà territoriali che già da tempo praticano strategie di conversione ecologica, difesa del territorio e valorizzazione autosostenibile del suo patrimonio (producendo già un valore pari a decine di miliardi di euro all’anno), piuttosto che per un’azione istituzionale prigioniera del passato e incapace di affrontare i problemi descritti.
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