“A Venaus si poteva intervenire senza violenza, bastava entrare e dire: 'Fuori tutti!'. Ci saranno state dodici-tredici persone attorno a un fuoco e una polizia normale le prende e le porta via. No, loro hanno voluto picchiarli”. Con queste parole Paolo, un militante No-Tav, rievoca lo sgombero del presidio di Venaus del 5 dicembre 2005, una data e un luogo entrati a fare parte della storia e della geografia di questo movimento di valligiani, che da ormai trent’anni si battono contro la realizzazione del tunnel per il treno ad alta velocità.
Una geografia diversa da quella proposta dai fautori dell’opera, che definiscono la Val di Susa come un “corridoio”, un’immagine che risulta piuttosto anonima e deterritorializzata, persino se usata in ambito domestico. Il corridoio di una casa viene infatti arredato con mobili di minore rilevanza o neppure arredato, in quanto si tratta di uno spazio di rapido passaggio. Lo stesso accade per scale più grandi, facendo apparire irrilevanti i problemi delle genti locali. Dal movimento, invece, emerge una costruzione della valle come luogo carico di valori, come spazio vissuto e del quotidiano e per questo da difendere contro un intervento dall’alto che viene percepito come devastante. È nata così una nuova geografia, costruita non su dati oggettivi o astratti, ma sulla narrazione di esperienze vissute e della nuova rete di relazioni che si è venuta a creare. Piccole borgate di montagna, come Venaus, Seghino e altre hanno assunto nell’immaginario del movimento una valenza simbolica ed evocativa fondamentale su cui costruire una quasi mitologia fondata sulle battaglie.
Tutto ha inizio nel settembre 1989, quando presso la Fondazione Agnelli si tiene un convegno in cui viene presentata la nuova ipotesi francese di costruire una linea Tgv tra Torino e Lione, con una galleria di 50 chilometri sotto il Moncenisio. L’idea riscuote numerosi consensi. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1990, nasce il Comitato promotore per l’Alta velocità Torino-Lione. Da questo momento in poi iniziano le proteste in Val di Susa, che daranno vita negli anni a seguire a un movimento sempre più attivo e numeroso, che continua a resistere tutt’ora opponendosi alla realizzazione dell’opera.
Da allora sono state condotte numerose ricerche e prodotti numerosi documenti, ma riassumendo possiamo dire che le motivazioni di fondo dell’opposizione alla linea ad alta velocità sono basate su due elementi: il pericolo ambientale (presenza di minerali di asbesto nel massiccio dell’Ambin, che dovrebbe essere perforato per la realizzazione del nuovo traforo) e l’inutilità dell’opera (il corridoio 5 Lisbona-Kiev, già abbandonato da Portogallo, Spagna e Slovenia). Una miscela che ha fatto insorgere così tante persone da dare vita al più longevo movimento di resistenza a un’opera della storia italiana.
Il pomeriggio del 12 dicembre 1992 viene simulato il boato, prodotto da un treno lanciato ad alta velocità, come previsto dal progetto Tav, in un contesto ambientale come quello dalla Val di Susa. I presenti rimangono impressionati. Nel 1995 prende vita il primo Comitato di coordinamento tra i comuni che sono interessati dai lavori di scavo. Nascono i presìdi, per controllare il territorio.
La seconda fase, che va approssimativamente dal 2000 al 2005, vede una trasformazione della protesta, che comincia a farsi più visibile con marce, cortei, occupazioni e presìdi. Il 2005 segna uno spartiacque nella storia del movimento e l’inizio della terza fase della lotta, che vede per la prima volta veri e propri attacchi da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti, in seguito a una vera e propria militarizzazione della valle. Lo scontro del Seghino nell’ottobre 2005, lo sgombero violento del presidio di Venaus nel dicembre dello stesso anno e la battaglia della Maddalena nel 2011 sono alcuni tra i momenti più drammatici.
Si arriva al 5 dicembre del 2005, quando la polizia attacca il presidio di Venaus, dove da giorni si radunavano attivisti del movimento intrattenendosi a chiacchierare e facendo i turni per sorvegliare il territorio. Alle tre e mezza di notte gli agenti arrivano con decine di blindati e con metodi violenti aggrediscono i presenti. Mentre l’azione di repressione va avanti, l’edificio del presidio viene circondato e una ruspa inizia ad abbatterlo, così come vengono distrutte le tende di altri manifestanti che campeggiavano nei dintorni. Gli scontri si fanno più accesi e si concluderanno solo all’alba con decine di feriti tra i manifestanti.
Venaus entra a far parte della nuova mappa mentale della valle. Luogo di un’altra battaglia, testimone della volontà di resistenza degli abitanti contro l’esproprio dei terreni da parte delle imprese costruttrici
Venaus entra così a far parte della nuova mappa mentale della valle. Luogo di un’altra battaglia, testimone della volontà di resistenza degli abitanti contro l’esproprio dei terreni da parte delle imprese costruttrici. “A partire dal 2005 c’è stato un vero e proprio inasprirsi del confronto” commenta un anziano valsusino. “La svolta però è avvenuta a giugno del 2011 perché, alla battaglia del Seghino c’è stata una contrapposizione fisica a spallate, ma è stato ancora un confronto civile; invece quando hanno assaltato la Maddalena il 27 giugno 2011, non hanno dato tempo a nessuno di ritirarsi, hanno gasato anche le donne che facevano da mangiare nella tenda e inseguito nel bosco gli anziani che cadevano per i gas e che non riuscivano a respirare”.
Quello scontro è rimasto nella memoria condivisa del movimento, che ha continuato a portare avanti le sue rivendicazioni, con forme diverse. Rivendicazioni che alla base rivelano la volontà di tutelare un territorio. Anche se una delle caratteristiche del movimento è sempre stata quella di essere inclusivo. Non ci si è chiusi dentro un primato della “valsusinità”. Al contrario, “valsusini si diventa”. Pertanto, un “noi” costruito non su un principio di autoctonia, ma un noi che è frutto di un processo, di un’adesione a una idea.
L’identità espressa dal movimento No-Tav, più che territoriale, è politica e il “noi” valsusino un noi aperto e plurale. A testimonianza di questo è la grande pluralità di sguardi e di posizioni che attraversa il movimento, in cui si incontrano persone che militano nella sinistra, ma anche qualche più o meno ex leghista, cattolici militanti, anziani e giovani, il tutto in una quasi assenza di leader acclamati o riconosciuti come tali. Allo stesso tempo c’è una forte apertura verso l’esterno e la ricerca di collaborazione con associazioni o gruppi di ogni angolo d’Italia e non solo.
Non c’è stata una fusione di parti diverse, ma un insieme di persone, anche con posizioni divergenti, che sono cresciute insieme, grazie alla lotta comune. Un insieme di diversità che hanno imparato a convivere. Per certi versi potremmo dire che è nato un senso di comunità, che prima non esisteva o almeno non si manifestava in modo così esplicito e condiviso. Comunità nel senso più profondo del termine, quella in cui, come dice Zygmunt Bauman “nessuno dei suoi membri è estraneo”.
Se non ci si limita a guardare il movimento No-Tav solo nelle sue forme più spettacolari, ci si rende conto di come queste espressioni enfatizzate dai media siano in realtà il frutto di una sensibilità e di una consapevolezza costruita nel tempo
Da questa complessa pluralità, che si tiene insieme grazie a una volontà comune di difendere la valle in cui si vive, sono nate realtà e sensibilità diverse, che appaiono come tessere di un mosaico, le quali, pur differenti l’una dall’altra, vanno a comporre un disegno unitario e visibile. Se non ci si limita a guardare il movimento No-Tav solo nelle sue forme più spettacolari (azioni di lotta, marce collettive, presidi territoriali), ci si rende conto di come queste espressioni “pubbliche”, ampiamente enfatizzate dai media, siano il frutto di una sensibilità e di una consapevolezza costruita nel corso di assemblee, discussioni e grazie anche all’apporto dei molti studiosi e specialisti venuti in loco a parlare.
“Abbiamo imparato ad ascoltarci e a decidere insieme; – dice Gigi Richetto, ex insegnante di filosofia – ogni soggetto del popolo No-Tav ha portato qualcosa al movimento: chi la scienza e la documentazione, chi l’esperienza artigiana, agricola o della fabbrica, chi il canto e la musica. È avvenuto così il capolavoro dell’unità di generazioni, paesi, culture di diversa provenienza”. Al di là dei fatti gravi e a volte drammatici, la questione Val di Susa impone una riflessione di carattere non solo politico, ma anche e soprattutto culturale. Alla radice del tutto, infatti, non c’è solo un tunnel, ma un’idea più ampia e generale di quello che viene chiamato “sviluppo”. Una parola che più che una linea guida, è diventata una sorta di totem, sacro e intoccabile.
Il concetto di sviluppo affonda le sue radici fin nell’Illuminismo, ma è con la Rivoluzione industriale e l’imporsi del modello mercantile, che lo sviluppo è diventato sinonimo di crescita, senza mai porre davvero dei limiti, pensato in chiave quantitativa e mai qualitativa. Se proviamo a osservare la maggior parte delle definizioni del concetto di sviluppo, notiamo che sono generalmente basate sul modo in cui una o più persone si immaginano le condizioni ideali dell’esistenza umana. Se lo sviluppo è soltanto un termine comodo per riassumere l'insieme delle virtuose aspirazioni umane, si può concludere immediatamente che esso non esiste in alcun luogo e che non esisterà probabilmente mai.
Ecco allora che l’idea di sviluppo si manifesta per la società occidentale non come ideologia o come scienza, ma come credenza. Credenza paragonabile ai miti delle popolazioni che noi chiamiamo “primitive”. Un’idea si discute, un mito no, pena l’intero crollo del sistema, della società basata su un’idea di crescita. Non a caso, nonostante i molti fallimenti, nessuno mette in discussione il concetto di sviluppo, anzi ogni fallimento diventa l’occasione di una nuova dilazione. E come ogni fede, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra (G8, G20, Davos), che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore al di là di ogni logica conclusione.
Riproduzione riservata