Si è detto per molti anni che durante le riprese di Roma città aperta il regista Roberto Rossellini non disponesse di una fornitura adeguata di pellicola e che quindi si procurasse il negativo nei modi più fantasiosi e spesso al di fuori dei circuiti legali. A cavallo tra il 1944 e il 1945 non solo i film si facevano con la pellicola, ma questa, come molti altri beni di consumo, scarseggiava nel mercato italiano, in cui l’argento utilizzato per la composizione dell’emulsione sensibile era necessario per impieghi diversi da quello cinematografico. Vero o falso, l’aneddoto – uno dei tanti che circondano la produzione di Roma città aperta – dice qualcosa su un film che sembra incorporare a livello materiale le condizioni della sua produzione, ma anche il mondo che racconta e rappresenta. Roma città aperta è, più che un film su, un pezzo stesso di Resistenza, occupazione, rinascita.
Roma città aperta è, più che un film su, un pezzo stesso di Resistenza, occupazione, rinascita
In tutto questo è come se il film beneficiasse di un’assoluta attualità, nella quale si intrecciano senza possibilità di soluzione realtà storica e leggende, caratteristiche intrinseche e significati attribuiti. Un film predestinato che quindi funziona sempre e dovunque – più e meglio di altri film – da monumento e da documento della sua epoca e dei valori che incarna.
Vale la pena di ricordare che, per quanto rocambolesche fossero state le condizioni della sua lavorazione, Roma città aperta è uno dei film di punta di quella stagione cinematografica. La realizzazione è avviata alla fine del 1944 con il titolo Storie di ieri e poi portata a termine da due delle sigle più attive di quegli anni: la Minerva (distribuzione) e la consociata Excelsa (produzione). Il film finito è proiettato alla revisione cinematografica definitiva, quella che abitualmente si chiama “censura”, il 5 settembre del 1945 e due giorni dopo il capo dell’ufficio spettacolo Vincenzo Calvino, già attivo durante il fascismo, firma una relazione consegnata al sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi dello spettacolo, il liberale Giustino Arpesani.
La sintetica scheda di revisione è ricca di dettagli interessanti e per certi versi profetici rispetto al futuro del film. Dopo aver lodato la “squisita sensibilità cinematografica” e la “regia nervosa e scattante, attenta a cogliere sopratutto [sic] i valori tonali della vicenda”, il revisore si sofferma sulla dimensione internazionale del film e proprio su questo punto avanza delle riserve. Il film, infatti, “potrà utilmente e degnamente portare anche all’estero l’eco della nostra passione politica e della nostra fede di risurrezione”, ma proprio “in considerazione del carattere internazionale del lavoro” si consiglia di eliminare la battuta in cui Pina/Anna Magnani indica con lo sguardo un palazzo bombardato in risposta alla domanda del brigadiere (“Sora Pina, ma che dite, voi, esisteranno veramente questi americani?”). Il sottosegretario Arpesani tuttavia non trova “alcun elemento di giudizio spregiativo nella battuta in questione” e autorizza senza tagli. Il film esce poi nelle settimane successive, il 24 settembre in occasione di un festival e il 27 nella prima proiezione pubblica a tutti gli effetti.
Roma città aperta sarà il migliore incasso italiano della stagione cinematografica 1945/46, ma soprattutto, come previsto dai revisori ministeriali, avrà un successo straordinario all’estero. Si afferma come un fenomeno di massa in particolare negli Stati Uniti: secondo la stampa dell’epoca non è il primo film straniero ad avere una distribuzione ampia in quel mercato, ma è il primo a fare soldi, tanto da funzionare come modello per lo sfruttamento del cinema europeo in America. I motivi principali di tale successo sono due e solo apparentemente in conflitto, dato che entrambi hanno a che fare con la sua flagranza visiva.
Il primo è il richiamo erotico del film, con le ballerine in déshabillé, la cocaina, l’omosessualità più che allusa, il sesso fuori dal matrimonio, la giarrettiera coperta per evitare il vilipendio dello sguardo. Per gli spettatori odierni questi aspetti possono sembrare marginali o incongrui, ma non lo erano per coloro che erano abituati al castigatissimo cinema degli studios hollywoodiani. Il secondo è la sua capacità di rappresentare la storia recente incarnandone gli effetti sui corpi dei personaggi: il Dopoguerra è anche il momento in cui la spettacolarizzazione della sofferenza umana è funzionale alla creazione di una retorica umanistica sovranazionale da opporre all’orrore della Seconda guerra mondiale. La Dichiarazione universale dei diritti umani è approvata nel dicembre del 1948. Roma città aperta, con le sue sequenze esplicite di sacrificio e tortura, alimenta questa politics of pity e rende visibile a livello internazionale un’umanità in cerca di riconoscimento.
Erotismo e morte, guerra e amore, localismo e internazionalità. E nel corso dei decenni il film ha mantenuto straordinariamente intatta questa sua duttilità culturale
Erotismo e morte, guerra e amore, localismo e internazionalità. E nel corso dei decenni il film ha mantenuto straordinariamente intatta questa sua duttilità culturale. Roma città aperta è il film-dibattito, o il film-sussidiario adatto per tutti gli scopi quando si parla di cinema, guerra, Resistenza. Perfino quando si parla di maternità: qualche anno fa, lavorando alla storia delle trasmissioni televisive del film, Luca Barra e io abbiamo appreso con un certo stupore che la sequenza della morte di Pina è stata antologizzata dalla Rai in uno speciale trasmesso dall’Antoniano per la festa della mamma (l’11 maggio 1975, per l’esattezza, in un programma che comprendeva tra le altre cose il circo di Nando Orfei, una bisnonna dell’Appennino modenese e il coro di Mariele Ventre).
La trasmissione televisiva del film, d’altra parte, inizia in Italia con la storia del mezzo. Il primo passaggio è domenica 7 febbraio 1954, un mese dopo l’inizio delle trasmissioni regolari, e il Radiocorriere presenta Roma città aperta come “un classico dello schermo”. Un passaggio successivo, nell’agosto 1959, porta a una interrogazione parlamentare del deputato missino Pino Romualdi “per conoscere i motivi artistici, ideali, o d’altra natura che hanno suggerito ai dirigenti della tv di trasmettere ancora una volta, a quindici anni di distanza dagli avvenimenti che la ispirarono, la pellicola Roma città aperta, i cui meriti artistici non interessa discutere qui, ma la cui falsità per i fatti narrati e per i sentimenti espressi, esclusivamente determinati da preconcetto politico e da odio di parte, è oggi ampiamente dimostrata e quindi inaccettabile e offensiva per milioni di italiani, arcistufi di manifestazioni del genere”. Più recentemente, nel marzo scorso, il sindaco di Marcon (Ve) ha negato il patrocinio alla proiezione del film organizzata dall’Anpi e da altre associazioni antifasciste, sostenendo che l’iniziativa non rientrava nel programma di mandato.
La cosa curiosa è che queste proteste hanno come oggetto un film a dir poco reticente su tanti punti. In Roma città aperta non c’è via Rasella, non ci sono i contrasti tra le diverse anime della Resistenza romana, non c’è nemmeno un vago accenno alla persecuzione degli ebrei. Non ci sono, tutto sommato, nemmeno i fascisti, ridotti a rapide e inoffensive macchiette. Il male è rappresentato da personaggi tedeschi come il maggiore Bergmann e la spia Ingrid, stereotipi fin nei nomi. E d’altra parte Rossellini era stato fino a pochi mesi prima uno dei più sofisticati interpreti delle esigenze di propaganda del fascismo, regista e sceneggiatore di film come La nave bianca (1941) e L’uomo della croce (1943).
Ma il punto è proprio questo. Esistono senz’altro film “migliori”, ideologicamente più raffinati, cinematograficamente più dirompenti, più ricchi in termini umani. Roma città aperta non ha né la disperazione esistenziale e la tenerezza di Ladri di biciclette (De Sica, 1948), né la violenza visiva e politica di Giorni di gloria (De Santis, Pagliero, Visconti, 1945), e neanche la capacità moderna di giocare con i generi e i linguaggi del cinema popolare che hanno film come Senza pietà (Lattuada, 1948) e Il sole sorge ancora (Vergano, 1946). Rimanendo anche solo alle regie di Rossellini, Roma città aperta non ha la radicalità di linguaggio di Germania anno zero (1948), ma nemmeno la forza di imporre modelli di racconto di Paisà (1946). Tuttavia, quando pensiamo al neorealismo, alla guerra e alla Liberazione, dobbiamo per forza tornare a questo melodramma autoassolutorio, interpretato da due professionisti del cinema degli anni precedenti (e poi degli anni a venire) e girato da un regista talmente male in arnese e allo stesso tempo talmente determinato a portare avanti il suo lavoro da ricorrere a canali, per così dire, informali per procurarsi le risorse e la pellicola necessarie per girare. Perché in effetti, tornando all’aneddoto iniziale, il negativo macchina di Roma città aperta, e lo si è scoperto solo nel 2004 quando è stato fatto un restauro integrale del film, è un assemblaggio di pellicole spesso scadute e di fornitori diversi, in qualche caso imprecisati. Un film moderno e indefinitamente attuale, quindi, non in virtù della sua novità o della sua bellezza, ma della sua radicale imperfezione.
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