“Venite a lavorare alla Volkswagen!”. La foto della fabbrica baciata dai raggi del sole fa da sfondo alla copertina dell’opuscolo in lingua italiana sul quale campeggia l’invito a trasferirsi a Wolfsburg, sede della nota azienda automobilistica tedesca. L’opuscolo è parte di una campagna di reclutamento di lavoratori stranieri portata avanti in risposta alla carenza di manodopera locale. I lavoratori italiani, affascinati dalla possibilità di un lavoro ben pagato e tutelato come quello offerto dalle aziende tedesche, rispondono in massa alla chiamata. Siamo nel 1963 e il numero dei nostri connazionali in Germania è in piena ascesa.
Erano 20 mila nel 1950, sono 200 mila nel 1960 (rappresentando così quasi la metà dei lavoratori in ingresso) e saranno circa 574 mila nel 1970, per riprendere le stime dei demografi Corrado Bonifazi e Salvatore Strozza. È indubbio, insomma, che gli italiani contribuirono in maniera determinante al miracolo economico tedesco. Nel complesso si conteranno più di un milione di italiani emigrati in Germania, la seconda destinazione in ordine di importanza dopo la Francia.
Questa migrazione aveva preso slancio nella metà degli anni Cinquanta grazie a un accordo tra i governi dei due Paesi atto a tutelare i lavoratori e facilitare reclutamento e collocamento di manodopera italiana nel territorio tedesco. L’accordo, siglato il 20 dicembre 1955 dal ministro per gli Affari esteri Gaetano Martino, per l’Italia, e dal ministro del Lavoro Anton Storch, per la Repubblica Federale Tedesca, intendeva gestire le migrazioni in maniera ordinata e assistita attraverso il concorso tecnico, organizzativo e finanziario dei Paesi interessati. Esso prende forma all’interno di un clima politico sostanzialmente favorevole alla mobilità dei lavoratori, che permette ai governi europei di assumere un ruolo attivo nella sua promozione. Si trattava infatti dell’ultimo di una serie di accordi tra l’Italia e altri Paesi europei: nel 1946 con Francia e Belgio, l'anno dopo con Svezia e Gran Bretagna e l'anno dopo ancora con Svizzera, Paesi Bassi e Lussemburgo. Infine, nel 1957, sarà sancito, attraverso il Trattato di Roma, il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno degli stati membri della Comunità economica europea.
Certo, l’esperienza migratoria in Germania non era una passeggiata. Nonostante le tutele di cui godevano i lavoratori italiani come esplicito obiettivo dell’accordo, le condizioni in cui si trovavano a vivere e lavorare erano in molti casi piuttosto dure. I Gastarbeiter della stessa Volkswagen, ad esempio, alloggiavano in baracche spoglie, in campi costruiti durante l’occupazione nazista per i prigionieri russi e spesso con la stessa dotazione del tempo. A Wolfsburg si decise invero di costruire un villaggio di prefabbricati in legno che divenne un “villaggio degli italiani”: ma questo non smetteva di dare l’impressione di vivere in un Lager, come spesso veniva definito dai lavoratori, forse per la presenza di un alto muro che circondava gli alloggi e a causa del ricordo, ancora fresco, delle atrocità belliche.
Più in generale, in Germania, Paese che si è sempre definito non di immigrazione ma di soggiorno prolungato e temporaneo di lavoratori stranieri, gli incentivi per i ritorni e le restrizioni al ricongiungimento familiare crearono una condizione di precarietà per il migrante italiano, soprattutto a livello psicologico, a causa dell'impossibilità di programmare la durata del proprio soggiorno (come ricorda, ad esempio, Enrico Pugliese in L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, 2002, nuova ed. 2006). Non a caso, infatti, l’emigrazione italiana in Germania resta caratterizzata da una marcata rotazione di manodopera e da un alto numero di ritorni.
In ogni caso, la presenza di accordi e il diretto coinvolgimento dei governi nel periodo post-bellico resero le migrazioni strettamente funzionali al galoppante sviluppo economico. La mobilità dei lavoratori costituì infatti un importante fattore di aggiustamento del mercato del lavoro a livello europeo. Da un lato, le imprese dei Paesi di arrivo potevano contare su una riserva di manodopera a basso costo e a basso livello di conflittualità; dall’altro, pur se a caro prezzo dal punto di vista delle relazioni familiari e del costo emotivo, i migranti acquisivano un mezzo di ascesa sociale e un'enorme capacità di finanziare, attraverso le rimesse, le proprie famiglie e le attività nei luoghi di partenza. Ne giovavano d'altra parte anche i governi dei Paesi di partenza, che vedevano allentare le tensioni sociali alimentate dalla disoccupazione, e quelli dei Paesi di arrivo, che attraverso l’impiego di immigrati riuscivano a evitare una crescita troppo rapida dei salari.
Difficile immaginare simili condizioni oggi. Sia perché i livelli di crescita economica non sono quelli del dopoguerra, sia per il clima di ostilità di molti governi verso i flussi migratori. Tuttavia gli esempi del passato dovrebbero insegnare che l’assunzione di ruoli attivi nella gestione, se non addirittura nella promozione del fenomeno migratorio, sono in grado di rendere la migrazione una risorsa importante e benefica. Gli squilibri economici e demografici tra aree del mondo e lo sbilanciamento tra domanda e offerta di lavoro che ne segue possono essere limitati dalla possibilità per le persone di spostarsi sul territorio. Questo valeva nel secondo dopoguerra, quando l’Italia era un esportatore netto di manodopera, e continua a valere oggi con il nostro Paese nel suo ruolo di importatore netto. Anzi, a maggior ragione vale oggi, alla luce del processo di invecchiamento in atto e all’inedito svuotamento della popolazione dei giovani adulti.
Ieri come oggi, gli accordi di cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei migranti rappresentano un potente strumento per le politiche migratorie. Non solo per la gestione delle emergenze umanitarie ma anche per il governo dei flussi migratori “volontari” motivati da questioni economiche, familiari, di studio, di cura, ecc. che da sempre rappresentano la grossa parte delle migrazioni. Chiudere progressivamente le frontiere nella vana illusione che questo possa porre fine ai flussi in ingresso, oltre a negare diritti umani fondamentali, serve solo a incentivare le attività illegali di traffico di persone e il grado di rischio dei viaggi, laddove un maggior coordinamento tra i Paesi permetterebbe, invece, di evitare che accanto a uno Stato disponibile ad accettare immigrati ve ne sia un altro con le porte ermeticamente chiuse.
In questi giorni cade anche un’altra ricorrenza, questa volta molto più vicina nel tempo. L’11 dicembre di un anno fa, infatti, veniva adottato a Marrakech, senza la partecipazione dell’Italia, il Global Compact for Migration, che incoraggia la cooperazione tra gli attori dei processi migratori (proprio quello che l’Italia richiede spesso ai partner europei) riconoscendo che nessuno Stato può affrontare la questione migratoria da solo. I Paesi dissidenti, guidati dagli Stati Uniti e dal gruppo di Visegrad, non hanno aderito, spaventati dall’idea che il patto implichi nel lungo termine una sorta di zona franca delle migrazioni che limiti la sovranità nazionale, come è stato recentemente sostenuto anche da Massimo Livi Bacci su Neodemos. Purtroppo, per il nostro Paese è stata un'occasione persa nella strada che sarebbe più che necessaria al fine di valorizzare la mobilità umana come fattore di sviluppo e per conseguire l’obiettivo di una “migrazione sicura, ordinata e regolare”.
I pochi accordi fatti negli ultimi anni (si pensi all’accordo Italia-Libia e quello tra Ue e Turchia) hanno avuto soprattutto la finalità di esternalizzare i confini delegando il controllo dei migranti a Paesi esterni all’Unione. Al contrario, gli accordi dovrebbero permettere la creazione di canali di legalità. Facilitare la vita ai migranti comporta benefici all’intera società ospitante. Che ci piaccia o no, le migrazioni internazionali continueranno a esserci a livello globale e una buona fetta continuerà a essere destinata ai Paesi europei, Italia inclusa. Le migrazioni ci saranno fintanto che ci sarà cambiamento, desiderio di crescita economica e aspettative di mobilità sociale. Dobbiamo tenerne conto per immaginare un futuro di gestione del fenomeno e, in questo, la memoria civile degli esempi del passato non può che aiutarci.
Riproduzione riservata