Sono passati solo nove anni da quell’inverno in cui quattro donne lanciarono una sfida coraggiosa, raccogliendo l’entusiasmo di una fitta rete di associazioni e di cittadini: volevano dimostrare al Paese che gli immigrati erano già un pezzo imprescindibile del mondo del lavoro e della società, e che senza di loro, anche solo per un giorno, l’Italia si sarebbe fermata.
Era il 2010 e lo stimolo arrivava dalla Francia, dove nasceva la Journée sans immigrés, 24h sans nous, con cui si ipotizzava uno scenario che il cinema aveva provato a fotografare sei anni prima, nel 2004, con il film di Sergio Arau, A day without a mexican. Immaginate se una mattina vi alzaste e tutti i messicani fossero svaniti nel nulla: questa la suggestione del regista.
In Francia alcuni giornali definirono “boicottaggio simbolico” la manifestazione che gli organizzatori scelsero di celebrare il 1° marzo: anniversario dell’entrata in vigore del Code de l'entrée et du séjour des étrangers et du droit d'asile. In Italia, attraverso il tam tam su Facebook e tra le associazioni, nacquero la rete Primo Marzo e il primo Sciopero degli stranieri: un mare giallo – quello il colore simbolo – invase pacificamente le piazze delle più importanti città. Fu un’onda che resistette qualche anno e poi si infranse, come accade alle onde; con essa si sgretolò il movimento che l’aveva generata.
Dopo nove anni molto è cambiato. L’attenzione oggi è concentrata sugli sbarchi, sempre più tragici: la stretta sul decreto flussi ha di fatto impedito di arrivare regolarmente in Italia; l’emergenza del Nord Africa nel 2011, le guerre, le dittature, le carestie hanno spinto tanti uomini e donne a tentare la via del mare nella speranza di una vita migliore. È così accaduto che i temi dell’accoglienza e della presunta invasione hanno occupato la cronaca. Le priorità sono cambiate e in nove anni siamo tornati indietro di molti altri, tanto che oggi è necessario ricordare che gli immigrati sono innanzi tutto esseri umani.
Pensavamo che la storia fosse stata abbastanza cruenta da insegnare, ma non è stato così. Siamo immersi nell’informazione, troppo spesso “fatta in casa”, e i numeri oggettivi sembrano contare poco, perché è la percezione della realtà a tenere banco, non la realtà. Pochi esempi: nel 2017 la Germania ha garantito lo status di rifugiato a 235.045 persone tra siriani, afghani e iracheni; l’Italia a 11.615 tra nigeriani, pachistani e gambiani, la Francia a 16 mila, l’Austria a 26.195, la Svezia a 18.530 (Eurostat) . Gli sbarchi in Italia dal 2014 al 2018 sono stati stazionari, tra i 150 mila e i 170 mila all’anno, calati a 119 mila nel 2017, scesi a 23 mila nel 2018, con il decreto Minniti, quando – spiega l’Unhcr – dopo l’accordo con la Libia quell’area di mare è diventata spazio di competenza libica e il lavoro di recupero delle Ong è stato drasticamente ridotto. I barconi della morte, però, hanno iniziato ad allontanarsi dalle coste libiche dirigendosi verso lo spazio tra Malta e l’Italia, allungando la permanenza in mare di questa gente in fuga, mettendo sempre più a rischio le loro vite. Contestualmente sono quasi raddoppiati gli sbarchi in Spagna e Grecia, rispetto al 2017. Non è invece molto cambiato il numero dei morti in mare, che anche l’anno scorso sono stati 1.311.
Questi sono i numeri, ma la percezione è un’altra. L’Istituto Cattaneo ha rivelato come l’Italia sia il Paese in Europa che compie l’errore di percezione più alto rispetto alla presenza dei migranti (+17,4%). È anche quello più ostile verso l’immigrazione e le minoranze religiose, dove si è meno propensi a credere che gli stranieri siano una risorsa economica; anzi, si pensa che “portino via il lavoro agli italiani”. Ma nel 2016 in Italia erano oltre 22 milioni le persone tra i 20 e i 64 anni considerate forza lavoro, di cui 2,3 straniere e 1,5 extra-europee (fonte Eurostat). L’Italia è il posto in cui si è convinti che la presenza di persone musulmane sia molto più alta della realtà. Il Pew research center ha però evidenziato che i musulmani in Europa nel 2016 rappresentavano il 5% della popolazione, concentrati in Spagna e Francia. In Italia sono meno del 5%, ma, come rivela Ipsos, gli italiani sono convinti che si tratti del 20%.
Che cosa è successo, dunque, nel profondo delle coscienze degli italiani, in questi nove anni, e dove ha sbagliato la politica? Qual è il senso oggi della grande manifestazione lanciata nel 2010? Chi c’era, come Stefania Ragusa, docente all’Università di Pavia, Stefano Galieni, giornalista, o il missionario comboniano Daniele Frigerio, non ha dubbi: “I sindacati confederali e il Pd non aderirono e questo gravò sul movimento”. Scioperare senza i sindacati maggiori era più difficile per i lavoratori, immigrati e non. Fu un errore non appoggiare la manifestazione. Si temeva che apparisse uno “sciopero etnico” e che fosse meglio una mobilitazione generale. Piero Soldini, allora referente Immigrazione Cgil, ammette con fermezza questa responsabilità. Si è congelato un tema per “pigrizia”, per incapacità di comprenderne la portata, arrivando estremamente in ritardo all’emergenza democratica di oggi. E non si è coltivato al contempo il rapporto con quell’opinione pubblica che nel frattempo – addormentata dalla politica-spettacolo di Silvio Berlusconi – è stata facilmente preda della campagna allarmistica veicolata dalla comunicazione sui social network: così è passato il messaggio della necessità di sicurezza (benché i reati siano in calo). Inoltre, pur essendo riusciti allora, attraverso varie battaglie, a ridimensionare la portata del decreto Maroni, leggi come la Bossi-Fini sono diventate strumento per il contrattacco politico nei dibattiti e nelle campagne elettorali, ma non sono state toccate. Si è sottovalutato, insomma, il punto a cui si poteva arrivare derubricando un tema così importante come l’immigrazione sotto il profilo politico e sociale. E il centrosinistra tuttora non ammette le proprie responsabilità: “Salva Minniti perché è un po’ più umano di Salvini”, ribadisce Soldini. Certo è che, oltre a questi fatti, anche il contrasto interno alla rete Primo Marzo ha contribuito al suo sgretolamento. Alcuni gruppi di immigrati temevano di essere strumentalizzati dagli italiani; lo strappo fu doloroso, allora, ma l’elaborazione di quella rottura ha probabilmente permesso alle nuove generazioni di stranieri e italiani di osservare la realtà con più ironia e meno pregiudizi.
Ciò nondimeno, oggi, quale può essere il terreno più fertile per favorire e stimolare questo processo di conoscenza? La scuola ha un compito fondamentale, grazie al ruolo formativo che riveste. Tuttavia, la riforma Moratti ha stravolto i programmi ministeriali: i ragazzi sono stati privati del contesto storico, geografico e geopolitico, delle coordinate culturali necessarie a comprendere gli eventi che caratterizzano l’attualità. Solo nel secondo grado della scuola dell’obbligo studiano la storia moderna e contemporanea che spiega loro i grandi temi: le dittature, le rivoluzioni, le guerre, le migrazioni. Quando affrontano di nuovo la modernità e il Novecento alle scuole superiori non hanno interiorizzato quelle conoscenze, del tutto ignorate alla scuola primaria – il cui studio della storia si ferma alla caduta dell’impero romano – fatto salvo l’impegno degli insegnanti che provano ad accennarle. Si può infatti far comprendere davvero cosa fu il nazismo solo parlando della Giornata della Memoria? O manca la cornice di senso? Questo stravolgimento mette in difficoltà sia gli studenti italiani, non sempre provenienti da famiglie in grado di colmare il gap culturale, sia gli stranieri, che nulla o poco sanno della storia occidentale. Ancora una volta la Rete rischia di essere il primo strumento di conoscenza, con i rischi e le omissioni del caso.
Per questo si rende necessario un cambio di rotta, perché le nuove generazioni possano decifrare la società attraverso un processo educativo che le aiuti a comprendere il presente e il futuro, e quindi le migrazioni, in un mondo che ne sarà sempre più attraversato.
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