Il 16 novembre scorso si è concluso a Brescia il terzo processo per la strage di Piazza della Loggia, che il 28 maggio del 1974 uccise 8 persone, ferendone oltre 100. I giudici hanno emesso una sentenza di assoluzione per i cinque imputati, per quattro dei quali la Procura di Brescia aveva chiesto l’ergastolo. Si tratta dell’ex leader di Ordine Nuovo nel Veneto, Carlo Maria Maggi, del militante Delfo Zorzi, dell’ex collaboratore dei servizi segreti Maurizio Tramonte e dell’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino. L’assoluzione, sulla base dell’art. 530, comma 2 del Codice penale, segue un copione ormai ben conosciuto, perché applicato nei precedenti processi per stragi conclusisi in anni recenti: il processo per la strage di Piazza Fontana, che ha visto imputati gli stessi Maggi e Zorzi, e il processo per la strage alla Questura di Milano del 1973, che ha visto imputato Maggi assieme ad altri militanti di Ordine Nuovo e a esponenti delle forze armate.La sentenza non suscita quindi troppa sorpresa, e sotto un certo punto di vista potrà anche risultare giustificata, nel senso che, a distanza di 36 anni dalla strage, molti testimoni sono venuti a mancare oppure non risultano più attendibili. Dovendo emettere un giudizio di colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, i giudici preferiscono far ricorso a una formula dubitativa, qual è quella dell’art. 530, comma 2, con riferimento alla mancanza o insufficienza di prove. È anche possibile che, come nei precedenti processi per strage, le motivazioni della sentenza saranno almeno in grado di stabilire la colpevolezza dell’ambiente neofascista, al di là delle responsabilità individuali. Tuttavia, se anche la sentenza fosse comprensibile sulla base degli elementi risultati a carico dei singoli imputati, essa non può essere giustificata alla luce della constatazione che, ancora una volta, non si è arrivati alla verità giudiziaria a causa dei depistaggi messi in atto da diversi settori, compresi pezzi di Stato.
Benedetta Tobagi, sulla “Repubblica”, e Michele Brambilla, sulla “Stampa”, hanno auspicato che siano ora gli storici a fare chiarezza sulle stragi, nell’amara consapevolezza che la via giudiziaria abbia esaurito il proprio ruolo. Le risultanze processuali potranno esse stesse contribuire alla ricerca della verità storica.
Personalmente ritengo che, prima di rivolgersi agli storici, si debba rivolgere un nuovo appello a quei politici che hanno a cuore la legittimità democratica dello Stato italiano. Il 15 giugno 2010 il Primo ministro britannico, David Cameron, parlando alla Camera dei Comuni, ha ammesso pubblicamente che l’esercito uccise 13 persone innocenti a Londonderry, in Irlanda del Nord, durante una manifestazione per i diritti civili tenutasi il 30 gennaio 1972. In quell’occasione Cameron ha stigmatizzato l’eccidio come “ingiustificato e ingiustificabile” e ha chiesto scusa a nome del governo e di tutto il Paese. L’episodio sottolinea la differenza tra uno Stato autorevole, che riconosce i propri torti per bocca di un ministro conservatore di forti credenze (e credenziali) patriottiche, e uno Stato debole, che continua ad arroccarsi nella difesa dell’indifendibile e non ha il coraggio di ammettere pubblicamente i propri torti e chiedere scusa ai cittadini. La costruzione di un Paese normale e di una destra moderna passa anche per questa strada.
Per la nostra rivista, Anna Cento Bull ha pubblicato Stragi e strategia della tensione: due (e più) verità a confronto, “il Mulino”, n. 6/2009, pp. 1047-1055.
Riproduzione riservata