Lo sforzo di tante nazioni per produrre e distribuire nel mondo il proprio vaccino anti-Covid ha scatenato una nuova forma di concorrenza geopolitica. L’ha detto per prima Sylvie Kauffmann: «In un mondo in cui i vaccini sono diventati una nuova misura del potere geopolitico di una nazione, non c’è dubbio che i presidenti Putin della Russia e Xi Jinping della Cina potranno permettersi di sorridere davanti alle difficoltà che su questo fronte l’Europa si è procurata» («The New York Times», 4 febbraio 2021).
Sembra quindi confermata l’affermazione di uno dei numerosi consiglieri della sicurezza nazionale di Trump, il generale McMasters, che nel 2017, nel solco della dottrina America First promulgata dal suo Presidente, disse: «Non esiste nessuna comunità internazionale, ma solo un’arena dove le nazioni si buttano, lottando ognuna per ottenere il massimo vantaggio per se stessa».
Secondo «The Economist» in giro per il mondo sono in via di sviluppo o in produzione non meno di 378 vaccini anti-Covid. Le aziende che li producono sono spesso multinazionali, come Pfizer-BionTech (americana e tedesca) o l’anglo-svedese Astra-Zeneca; la francese Sanofi sta collaborando con l’inglese Glaxo-Smith-Kline. Le singole aziende americane sono quelle più avanti di tutte: oltre a Pfizer, sono all’avanguardia Novavax, Moderna e Johnson & Johnson. Ma a differenza di tanti altri protagonisti statali dell’attuale scena mondiale, il governo americano «sta a guardare» («Wall Street Journal», 21 febbraio 2021). Al contrario, la Cina «sta costruendo una catena di trasporto aereo, magazzini e camion per portare vaccini refrigerati in tutto il mondo in via di sviluppo». Solo nella settimana del 21 febbraio, infatti, un milione di dosi cinesi sarebbero passate per l’aeroporto di Addis Abeba, destinate all’Etiopia e ai Paesi circostanti. Commenta il giornale newyorkese: «La posta in gioco è un premio in termini di soft power, cioè una disposizione positiva (verso la Cina) di politici e popoli attraverso il mondo-in-via-di-sviluppo che ha bisogno di vaccini anti-Covid low-cost, e in più il prestigio della percezione da parte di questi Paesi che quella sia la nazione che può garantire meglio di chiunque altro la salute pubblica a livello globale».
Nei primi giorni di febbraio, mezzo milione di dosi del vaccino cinese Sinopharm sono arrivate in Pakistan. L’ambasciatore cinese a Islamabad ha dichiarato che il gesto rappresenta «una manifestazione della nostra fratellanza», un sentimento confermato anche dal governo del Pakistan e un evidente dispetto al nemico di sempre, lì accanto, l’India («Asian Times», 23 febbraio 2021).
Sarebbero 60 i Paesi interessati al progetto cinese in Medio Oriente, Europa, America latina e persino in Oceania. «La dimensione sanitaria era un tema secondario nella grande strategia cinese, la cintura e la strada», ha commentato un esperto dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza, citato dal «Financial Times» (10 febbraio 2021). «Con la pandemia, invece, essa è diventata il punto focale di tutto». Tutto ciò a dispetto della propria popolazione, dove si calcola che solo 2%, su 1,4 miliardi di persone, sia stato vaccinato fino a ora.
Nessuno dubita che la Russia, col suo Sputnik V, veda nel proprio vaccino una nuova arma – la prima dopo molti anni – per portare avanti l’eterno scontro geopolitico con l’Occidente e per proiettare la propria presenza altrove. Sempre secondo il «Financial Times», sarebbero 1,2 miliardi le dosi richieste dai suoi clienti fino ad adesso. Particolari successi propagandistici sono stati registrati in Iran e in Ungheria, ma anche senza la sorprendente parziale approvazione da parte delle autorità inglesi alla fine di gennaio, era prevista la diffusione del vaccino anche in tutta l’America latina e in territori come la Bielorussia, l’Algeria e la Nigeria. Il capo dei ricercatori russi ha raccontato al «Corriere della Sera» (14 febbraio 2021) che 23 Paesi avevano già adottato il loro vaccino, mentre non più dell’1,5% della popolazione russa era stata vaccinata al 24 febbraio («The Times», 24 febbraio 2021).
Ma sono l’Europa centrale e i Balcani a rappresentare il premio più ricercato da parte di chi vive la diffusione del proprio vaccino come un concorso di soft power. La Slovacchia e la Croazia stanno guardando verso la Russia e la Cina, in assenza di una presenza significativa dell’Unione europea su questo fronte. Il chirurgo ed ex viceministro della Salute dell’Albania, Bardh Spahia, sul sito dell’Osservatorio dei Balcani (23 febbraio 2021), ha lanciato un appello all’Ue, affinché provi ad andare oltre la misera cifra di 350.000 vaccini promessi per tutti i Balcani occidentali.
Intanto, il presidente serbo Vucic si è rivolto all’Occidente, poi alla Cina e infine anche alla Russia, offrendo ai suoi cittadini un'ampia scelta di prodotti e mantenendo un’equidistanza geopolitica da tutti e tre i poli. A metà gennaio la Cina ha consegnato a Belgrado 1 milione di dosi con l’intenzione di far arrivare i suoi vaccini anche in altri Paesi della zona. La Russia ha mandato 200.000 dosi. Dei grandi produttori d’Occidente, Pfizer e Astra-Zeneca, nessuno era in grado di proporre più di 150.000 dosi. Un esperto serbo ha commentato alla London School of Economics: «Quando altri Paesi europei guardano alla Serbia e decidono di acquistare anche loro il vaccino cinese, la scelta della Cina di ampliare il suo soft power e acquistare così influenza, sta funzionando» («Wall Street Journal», 13 febbraio 2021).
Ma sul fronte dei vaccini anti-Covid, la Cina ha una grande rivale: l’India, la nazione che si presenta pubblicamente come «la farmacia del mondo», per via delle dimensioni eccezionali della sua industria farmaceutica. Dal 20 gennaio 2021 il governo indiano si è impegnato a distribuire la sua versione del vaccino Astra-Zeneca ai vicini Myanmar, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka e alle Maldive, come elemento caratterizzante di una sua iniziativa di diplomazia pubblica dal titolo Amicizia tramite il vaccino («Abc News», 24 febbraio 2021). Israele sta tentando di usare la stessa strategia, avendo un evidente surplus di vaccini e i principali beneficiari sono stati Honduras e Slovacchia («The Times» 25 febbraio 2021). Quand’è scoppiata la pandemia in Cina, è stata l’India a mandare del materiale medico a Wuhan nel febbraio 2020. Ma l’anno successivo, la Cina ha domato il virus, che si è invece diffuso in modo catastrofico in tutta l'India. Intanto, ha avuto luogo un altro confronto armato tra le due grandi potenze sulla frontiera nord-est dell’India. Nonostante tutto, l’India prevede di produrre un miliardo di dosi di vaccino entro il 2021, con il risultato – come nel caso di Russia e Cina – che certi suoi alleati saranno molto meglio attrezzati per affrontare il virus rispetto alla sua stessa popolazione.
In un interessante commento sull’«Asian Times» di Bangkok (23 febbraio 2021), un analista anonimo ha notato che la diplomazia medica ha una lunga storia, spesso positiva. Sostiene, per esempio, che la soppressione del vaiolo fu un sottoprodotto della concorrenza pacifica Usa-Urss nella Guerra fredda, mentre durante l’epidemia della Sars nel 2002, la Cina fu capace di estendere aiuti al vicino Taiwan, un gesto inconcepibile oggi. Oggi la «rivalsa cooperativa» è stata sostituita da una forma di concorrenza aggressiva su questo terreno.
Quello che è certo è che i grandi sforzi medici, diplomatici e propagandistici dei Paesi citati attorno al vaccino anti-Covid servono in primo luogo a distrarre l’attenzione del mondo dai numerosi falli su tante altre questioni, coperte dalla formula dello soft power, dai diritti umani alla lotta contro la povertà, dalla miseria dei propri sistemi sanitari allo sfruttamento economico delle loro tradizionali politiche di «aiuto» verso i Paesi del terzo mondo. Un politologo indiano, scrivendo sul «Foreign Policy» di Washington (14 febbraio 2021), suggerisce che l’attivismo medico indiano deve nascondere agli occhi del mondo le proteste delle masse contadine contro le nuove leggi per il settore agricolo volute dal governo di Modi, per non parlare del trattamento del Kashmir o della minoranza musulmana, le leggi che toccano le libertà dei media, la giustizia e il mondo accademico. In generale comunque, questa analisi afferma che il governo avrebbe calcolato che un declino netto del soft power indiano, fino a poco tempo fa riconosciuto e apprezzato all’estero, sarebbe un prezzo accettabile da pagare per il consolidamento della posizione del partito Bjp al comando in India e per la realizzazione del suo radicale progetto politico.
Le dimensioni e la dinamica della diplomazia dei vaccini, e il collegamento che tanti osservatori fanno tra quest’ultima e le idee di soft power, possono aver alterato le concezioni che stanno alla base di questa formula? Nella versione più autorevole e succinta del concetto offerto dal suo creatore, il politologo di Harvard Joseph Nye, nel 2004, il soft power di uno Stato deriva «dalla sua cultura (cioè quando è attraente agli altri), dalla sua cultura politica (cioè quando la predica e la pratica coincidono, sia a casa sia all’estero), e dalle sue politiche estere (cioè quando sono percepite come legittime e basate su un’autentica autorevolezza morale)». Evidentemente sono pochi gli Stati che possono agire nel mondo in conformità con queste norme così altosonanti, se non per brevi momenti.
L’emergenza Covid-19 e la risposta fornita da certi Stati, potrebbe benissimo essere uno di questi momenti, ma certamente un evento distaccato dal contesto di tutte le altre attività di queste grandi nazioni, sia a casa sia all’estero, tant’è che il guadagno, in termini di prestigio, la versione storica di quello che oggi chiamiamo soft power, rischia di essere del tutto effimero.
Se invece consideriamo il soft power in un altro modo, cioè come un meccanismo che può collegare potere (in senso tradizionale: militare, economico, geopolitico) e influenza, allora la questione si presenta sotto un’altra luce. La storia contemporanea e il cosiddetto «secolo americano» dimostrano che il più efficace, durevole e incisivo dei meccanismi che nel tempo hanno collegato potere e influenza si trova nei modelli di modernità, cioè di cambiamento, d’innovazione e persino di «progresso», che una società può produrre e distribuire nel mondo.
Evidentemente le società private occidentali – e forse anche qualche istituzione russa o cinese – che hanno prodotto in tempi record i primi vaccini anti-Covid, possono conferire alle loro nazioni un premio in termini di soft power. Ma a una sola grande condizione: che quelle nazioni – tramite i loro governi – siano coerenti a casa e all’estero nel far arrivare i benefici di queste innovazioni ai più, non solo a quella minoranza rappresentata dai proprio cittadini. A modo loro, Cina, Russia, India e altri hanno accettato questa sfida. Tutti gli altri – membri del G7 e dell’Oms – sanno benissimo che esiste questa sfida e cominciano, seppur tardivamente, a muoversi. In quel senso, la storia della diplomazia dei vaccini come dimostrazione della forza del soft power nel mondo d’oggi, è solo agli inizi.
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