Il tempestoso crepuscolo della presidenza Trump, culminato con l’assalto al Congresso a opera dei suoi sostenitori il 6 gennaio, ha oscurato un altro evento, che invece avrebbe meritato attenzione.
La mattina stessa in cui Trump incitava i suoi a non arrendersi all’evidenza della vittoria di Biden, venivano ufficializzati i risultati dei ballottaggi per i due seggi del Senato in Georgia, ed erano risultati in qualche misura storici. Due sfidanti democratici, Jon Ossof e Raphael Warnock, hanno sconfitto i senatori repubblicani uscenti, David Perdue e Kelly Loeffler. Non accadeva dal 2000 che i democratici vincessero un seggio al Senato in Georgia. Non solo, Raphael Warnock, successore di Martin Luther King Jr. alla guida della Ebenezer Baptist Church di Atlanta, è il primo senatore afro-americano nella storia di questo Stato e di tutti gli Stati che parteciparono alla guerra civile sul fronte confederato. Jon Ossof è invece un trentaquattrenne giornalista e produttore di documentari investigativi, anche lui alla sua prima esperienza politica. Dopo aver acciuffato il ballottaggio per miracolo, Ossof nel voto del 5 novembre ha prevalso con un margine di circa un punto percentuale, mentre Warnock ha sconfitto Loeffler con un margine poco più ampio. Un’elezione combattuta quindi, come era stato anche per Biden, ma in uno Stato dove i repubblicani dominavano la scena da decenni.
In un certo senso in queste elezioni i democratici hanno raccolto i primi frutti, negli Stati del Sud, di una strategia mirata a costruire una coalizione di elettori in grado di sfidare i repubblicani nelle loro roccaforti. Una coalizione imperniata sugli elettori di colore, sugli ispanici, sulla middle class urbana e sub-urbana, ben diversa da quella, bianca e conservatrice, che li aveva portati a dominare le elezioni in questi Stati fino agli anni Sessanta, e che portava a Washington una classe politica moderata (i cosiddetti Blue Dogs) spesso in contrasto con i democratici liberal eletti nel Nord Est o nella West Coast. Ossof e Warnock, pur attenti in campagna elettorale a non alienarsi le simpatie degli elettori indipendenti stanchi degli estremismi trumpiani, sono invece due progressisti, allineati al nuovo corso democratico post-Obama. Entrambi favorevoli all’abolizione della pena di morte, entrambi favorevoli all’aborto, entrambi attenti alle questioni ambientali e al rafforzamento delle opzioni pubbliche in ambito sanitario. La scommessa è quella di mantenere ed espandere questa coalizione multirazziale senza perdere terreno fra gli elettori tradizionali, che potrebbero costare ai democratici il controllo degli Stati (post)industriali del Mid-West, decisivi per Trump nel 2016 e per Biden nel 2020. Non sarà facile.
I ballottaggi della Georgia sono stati cruciali anche per la politica nazionale. Grazie a questi seggi, i democratici possono contare infatti su 50 senatori, tanti quanti ne contano i repubblicani. In questo caso il Senato è controllato da chi controlla la presidenza. Il vicepresidente degli Stati Uniti, dunque Kamala Harris nei prossimi quattro anni, presiede infatti il Senato e può esprimere il voto decisivo in caso di parità. Al controllo del Senato si somma la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, sebbene i democratici vi abbiano perso una dozzina di seggi nelle recenti elezioni. Il presidente Biden potrà contare quindi su un Congresso tutto democratico, almeno nei primi due anni del suo mandato. Una strada in discesa per realizzare le promesse elettorali? Non proprio.
I partiti americani sono tradizionalmente meno coesi di quanto lo siano quelli europei. Le defezioni nei voti parlamentari sono la regola, più che l’eccezione. Anche se il numero di parlamentari «ribelli» si è ridotto in epoca di polarizzazione crescente, il presidente americano non può dare per scontato che tutti i deputati e senatori del suo partito sosterranno la sua agenda politica al Congresso. E questa, in un Senato perfettamente equilibrato, sarà una preoccupazione costante per Biden. Soprattutto per far passare le proposte più avanzate, ad esempio sul contrasto al cambiamento climatico, dove gli interessi della grande industria e del settore energetico vanno di pari passo con le preoccupazioni dei sindacati sulla perdita di posti di lavoro. Ma c’è dell’altro. Nel Senato americano la maggioranza necessaria ad approvare gran parte della legislazione non è di 51 senatori, bensì di 60. Nel gergo politico americano si chiama filibustering, ossia la possibilità di prolungare all’infinito il dibattito precedente alla votazione su una proposta di legge. Per interromperlo e procedere alla votazione c’è bisogno di una maggioranza, appunto, di 60 senatori. Non deve sorprendere una regola di impronta tanto consensuale. Al di là dell’immagine «maggioritaria» che deriviamo dalle campagne elettorali, sempre incentrate sullo scontro fra i candidati dei due maggiori partiti, le istituzioni degli Stati Uniti sono state disegnate dai padri costituenti per funzionare sulla base di continui accordi e compromessi, innanzitutto fra presidente e Congresso, ma anche fra l’amministrazione federale e gli Stati, e persino fra i due partiti all’interno delle istituzioni.
La regola del filibustering può essere aggirata sulle leggi di bilancio, cosa che faciliterà il compito di Biden su misure relative al rilancio dell’economia post Covid-19 o sulla proposta, caldeggiata dalla senatrice Elisabeth Warren e dalla sinistra del Partito democratico, di alleviare i debiti che tanti studenti contraggono per frequentare le costose università statunitensi, e che sempre più spesso faticano a ripagare.
Allo stesso modo, la risicata maggioranza al Senato permetterà a Biden di affrontare con maggior fiducia il voto di conferma delle sue nomine: i membri del suo gabinetto, gli alti funzionari dei servizi di sicurezza, in futuro i posti di giudice che si renderanno vacanti nelle corti federali e, chissà, nella Corte Suprema, dove le tre nomine della presidenza Trump hanno spostato gli equilibri verso il polo conservatore. Sulle proposte più ambiziose che i democratici sperano di realizzare nei prossimi anni, invece, le prospettive sono incerte. L’espansione dell’Affordable Care Act, cioè la riforma sanitaria di Obama, le misure incisive di riforma delle forze di polizia evocate dal movimento Black Lives Matter, la tanto attesa revisione della normativa sull’immigrazione, il Green New Deal, l’aumento del salario minimo, sono tutti temi su cui le speranze dei progressisti rischiano di scontrarsi con la dura legge dei numeri. Per vederle approvate bisognerà contare, al Senato, sul voto di tutto il gruppo democratico – che include i centristi come il senatore del West Virginia Joe Manchin – e anche sulla benevola indulgenza di almeno dieci senatori repubblicani.
Biden fu eletto per la prima volta al Senato nel 1972. Da allora, per quasi dieci lustri si è costruito un’immagine di politico pragmatico, vicino ai lavoratori ma capace di navigare nelle stanze delle istituzioni alla ricerca di compromessi; emblema della politica più tradizionale, ma vice, e fidato amico, del primo presidente afro-americano. Nella campagna elettorale del 2020 ha giocato il ruolo del moderato opposto all’estremismo incendiario di Trump, con l’obiettivo di riportare la normalità e un minimo di spirito collaborativo a Washington. Il suo slogan elettorale – «ricostruiamo l’anima della nostra nazione» – potrebbe essere non solo l’auspicio di una nuova epoca di collaborazione fra i due partiti storici, ma una necessità ineludibile per un Paese profondamente diviso nella società, e anche nelle istituzioni rappresentative.
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