La “grande contraddizione” infine è esplosa. Tutti i movimenti politici così come i partiti sono costretti a mediazioni, quando non a vere e proprie contraddizioni, fra i principi ispiratori e l’azione politica. Ma spesso si tratta di mediazioni su aspetti secondari degli ideali di riferimento. I 5 Stelle sono entrati in contraddizione proprio sul nucleo centrale della loro “ideologia” quando, da critici radicali di ogni forma di establishment e di élite, sono loro stessi diventati élite politica entrando nel governo.
Il Movimento, che ha costruito il suo nucleo ideologico sull’antagonismo verso tutte le istituzioni (nel nome del “popolo” come tutti i populismi) e sulla critica feroce verso tutte le élite (economiche, finanziarie, massmediatiche, ma soprattutto politiche), con l’entrata al governo si è trovato esso stesso élite politica. Quello che si presentava come un “non-partito”, col suo “non-statuto”, con una sua dichiarata diversità ontologica, si trova a essere un partito, in ultima analisi, come gli altri. Due erano gli elementi che lo caratterizzavano come “movimento”: nella propria classe politica, connotata da non professionismo politico, da ruoli temporanei, dalla continua tensione contro l’istituzionalizzazione; nel rapporto con gli altri partiti, segnato dalla non accettazione del compromesso e dal rifiuto a stringere alleanze. Il rifiuto a stringere alleanze è da tempo caduto (e certificato anche dal recente pronunciamento sulla piattaforma Rousseau). Il rifiuto del professionismo politico (il famoso “uno vale uno”) è in via di dissolvimento col superamento del divieto a non andare oltre i due mandati di rappresentanza politica.
Questa contraddizione è arrivata oggi ai vertici del Movimento, ma era già da tempo presente nel “popolo” elettorale. Il 25% conquistato alle elezioni del 2013 era figlio della campagna anti-sistema di Beppe Grillo e il 33% delle elezioni del 2018 era figlio di cinque anni di opposizione. Il progressivo declino elettorale segnato da tutte le consultazioni successive a quelle del 2018 non può che essere interpretato come l’abbandono di coloro che lo avevano votato proprio per la sua diversità e la promessa di cambiamento.
Di fronte a questa contraddizione il Movimento si trova oggi costretto a una scelta esistenziale: proseguire sul cammino intrapreso dell’istituzionalizzazione (diventare “partito”) oppure riprendere in qualche modo la carica eversiva originale (restare “movimento”).
Il percorso da movimento a partito comporta tre livelli di iniziativa politica: interno, esterno e ideologico. Sul piano interno la strutturazione organizzativa (con qualcosa di simile alle federazioni territoriali e i congressi, li chiamino come vogliono) e l’abbandono dell’utopia della democrazia digitale (cioè la trasformazione della democrazia rappresentativa in democrazia diretta). Sul piano esterno, e cioè del rapporto con gli altri partiti, si tratta di scegliere una collocazione di campo che non può che essere oggi nell’area del centrosinistra in Italia e dei partiti convintamente europeisti in Europa. Più in generale sul piano ideologico il Movimento dovrebbe uscire dalle ambiguità e dalle incertezze dovute alla mancanza di un’ideologia di riferimento, smettere di dichiararsi “né di destra né di sinistra” e accettare il fatto che a tutt’oggi un’identità esterna ai due poli di riferimento tradizionali resta incerta e l’iniziativa politica priva di bussola orientatrice.
Ma dalla contraddizione menzionata il M5S può uscire anche in un altro modo, riavvolgendo il nastro della sua storia e tornando a essere da partito di governo a movimento di protesta. Si tratterebbe di abbandonare ogni velleità governativa, per recuperare la sua diversità e porsi stabilmente all’opposizione, mantenendo la sua carica intransigente e anti-sistema per assumere un ruolo politico diverso da quello dei partiti tradizionali. Non un ruolo di governo. Ma neppure di opposizione, se per opposizione si intende chi si prepara a sostituire chi governa. Ma un ruolo di controllo. Per “partito di controllo” intendo, mutuando il concetto dal politologo francese Pierre Rosanvallon, una forza di testimonianza e di protesta, che svolge funzioni di sorveglianza e di denuncia. Si tratterebbe in altre parole di riprendere alcuni degli slogan più noti di Grillo («In Parlamento non ci metteremo né a destra né a sinistra, ma dietro, per controllare chi ci governa»; «Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno»). In questa direzione potrebbero essere valorizzate le forme di partecipazione politica non convenzionali care al Movimento 5 Stelle, dalla partecipazione digitale ai referendum. Come ancora ha sostenuto Rosanvallon in una intervista sull’ultimo numero della rivista “il Mulino”, il populismo non è solo un movimento di “collera collettiva”, ma propone anche delle risposte alla crisi democratica diffusa in tutte le democrazie occidentali. Si tratta di un itinerario politico che comporterebbe un elevato costo elettorale. Ma questa funzione di vigilanza, denuncia e provocazione non ha bisogno di grandi numeri elettorali, né nel nostro Paese sarebbe totalmente nuova. Non dobbiamo dimenticare il ruolo politico (e culturale) importantissimo svolto fra gli anni Settanta e Ottanta dal Partito radicale: e ottenne il suo massimo successo elettorale col modesto 3,9% delle elezioni del 1979.
Le due alternative qui delineate per l’uscita del Movimento 5 Stelle dall’ambiguità attuale hanno, a mio parere, pari dignità politica. La prima, quella della “normalizzazione” organizzativa e dell’inserimento strutturale nell’area della sinistra, presenta vantaggi indubbi dal punto di vista del sistema politico nostrano, orientandolo verso un assetto bipolare. La seconda sconvolgerebbe gli assetti attuali ma forse (e sottolineo questo “forse”) permetterebbe di canalizzare l’energia della protesta populista in direzione non sterile né antidemocratica.
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