Pensavo fosse clausura, invece era un’orgia. Dietro le mura dei conventi domestici in cui il virus ci ha rinchiusi non abbiamo vissuto settimane di astinenza e castità culturale. Ci ha raggiunto, nell’isolamento, l’imprevisto ma travolgente assalto di un seduttore immateriale: e come monache di Monza gli abbiamo sorriso. Sventurati? Me lo chiedo. Musei, istituzioni, associazioni, è stata una gara a chi offriva di più: corsi, tutorial, conferenze, workshop, libri, film, musica, visite virtuali a mostre, tutto online e tutto gratuito, là dove prima, nel mondo fisico, molte di queste cose avrebbero avuto un biglietto, un costo di iscrizione o un prezzo di copertina.
Insomma, chiunque consumasse cultura prima della quarantena sociale ha continuato a farlo, non solo esaurendo la piletta dei libri in arretrato sul comodino. Chi più chi meno, abbiamo tutti partecipato ai webinar (dopo aver capito che cosa significa), a talk e lezioni da remoto; abbiamo scaricato piattaforme di cui ignoravamo l’esistenza (Zoom, Team...); abbiamo imparato i segreti della condivisione del desktop; ci siamo allenati al galateo della videoconferenza (spegnere l’audio quando non tocca a te, alzare la manina elettronica per chiedere la parola). Ci siamo tuffati a testa in giù dentro una modalità che la tecnologia ci permetteva già da tempo, ma che il distanziamento sociale ha, più che accelerato, imposto. Quelle che prima erano le graziose vetrinette digitali del «vero» lavoro culturale, che restava potentemente analogico, sono diventate le sole scialuppe disponibili per proseguire la navigazione, per non naufragare nella tempesta del virus.
C’è stata sicuramente molta generosità in questa offerta di riempitivi per la nostra solitudine, ma c’è stato anche, un po’ meno ingenuamente, il tentativo affannoso di tanti musei, istituzioni ecc. di non scomparire dai radar, di non essere dimenticati da visitatori, utenti e lettori. Allo stesso modo, molti artisti hanno fatto saltare il chiavistello dei loro bauli creativi, hanno messo online opere, video, concerti, testi. Per «esserci». Per paura di non esserci più.
Qualcosa accomuna questa strabordante e diseguale offerta culturale agli spot commerciali televisivi approntati in fretta per il tempo del Covid: un sottotesto sdolcinato e petulante che tradisce, sotto la captatio «andrà tutto bene», la comprensibile ansia dei venditori e dei produttori di ottenere rassicurazione dai clienti perduti: dopo, tornerai da me? Ricomincerai a comprare le mie cose, sì? Sarà tutto come prima, vero? Ma no che non lo sarà.
Mentre scrivo, all’alba del lockout, non posso ancora sapere come sarà il dopo: ma sono ragionevolmente sicuro che un’esperienza di massa di sostituzione dei canali dell’approvvigionamento culturale, così intensa e radicale, non potrà chiudersi come una parentesi curiosa che racconteremo ai nipotini.
Quando riaprirà la biblioteca civica della mia città, per dire, ci tornerò con piacere: ma come mi apparirà? In queste settimane ho scaricato ebook e ho letto giornali con Mlol, mi verrà magari il sospetto di non avere più bisogno di prendere due bus e metterci due ore per ottenere lo stesso risultato che in poltrona mi richiede tre minuti? La biblioteca è molto di più, mi risponderebbe il bibliotecario. Ne sono convinto. Socialità, scoperta, sorpresa. O lo è stata? Quando lungimiranti sindaci con la licenza di quinta elementare si inventarono biblioteche di quartiere, gallerie civiche, teatro a prezzi popolari, quel Welfare della cultura rompeva la parete di vetro che separava i ceti popolari dal sapere, non solo per un problema di costi, ma di soggezione, senso di inferiorità e disagio. Occorreva dare le chiavi di uno strumento, di un canale, di un medium, a chi pensava di non averne diritto. E così è stato.
Oggi abbiamo il medium, e siamo convinti di avere diritto di accesso a tutto, ma ci serve un Welfare della cultura, che fornisca strumenti che il mercato non ha interesse a dare: setacci per filtrare quel che abbiamo troppoOggi abbiamo il medium, e siamo convinti (ma è ovviamente una ben coltivata illusione) di avere diritto di accesso a tutto. Ma ci serve ancora un Welfare della cultura. Che compensi quello che il mercato non ha interesse a offrire. Che fornisca strumenti che il mercato non ha interesse a dare: non più chiavi per avere quel che non abbiamo, ma setacci per filtrare quel che abbiamo troppo. Mascherine filtranti per non soffocare nel contagio da overflow.
È questo che abbiamo visto nei due mesi di isolamento? Direi il contrario. È stata una corsa di tutti, pubblico e privato, a occupare in qualche modo lo spazio digitale, l’unico rimasto, per placare la frustrazione dell’impotenza analogica. In fretta, è stato messo online di tutto, e non sempre cose di buona qualità: abbiamo visto curatori di musei fare dirette Instagram da casa con la porta del bagno sullo sfondo e i cataloghi tenuti in mano davanti alla videocamera per mostrare le figure, abbiamo visto ballonzolanti visite virtuali alle mostre girate con i cellulari, abbiamo visto videolezioni imbranate – «scusate cerco la diapositiva… non si carica, un momento…». Pochissimi contenuti di qualità specificamente pensati per il medium. Per forza: creare contenuti web richiede professionalità, e denaro. Abbiamo fatto un’orgia coi fichi secchi.
E tuttavia, ci siamo sbronzati lo stesso. E la sbornia ci è piaciuta. A tutti, abbiamo il coraggio di ammetterlo: non solo ai consumatori, stupefatti da tanta generosità. Anche ai produttori. Ho scritto qualche libro e in passato ho fatto le solite presentazioni in libreria, in città lontane da casa. Treno, albergo, cena, due giorni e un gruzzoletto di euro spesi: per trenta persone, otto libri venduti, e tuttavia chiamavo l’editore: «Beh, è andata benino». Un mio libro è uscito il giorno stesso in cui il decreto chiudeva tutte le librerie d’Italia. Allora ho fatto anche io presentazioni online: e voilà, tremila, cinquemila contatti. Una volta, quindicimila. Da casa, senza fatica, senza spese, in due ore. Chi me lo farà fare, di tornare nelle salette scomode delle librerie?
I numeri inebriano. Finora era solo vanità privata dei like, adesso, in questo esperimento a doppio cieco, abbiamo verificato che possiamo raggiungere online più consumatori di cultura di quanti ne ospiteremmo nelle sale conferenze e sale mostre. Oddio, di che qualità sia quell’attenzione, quanto fugace quel contatto, che cosa si nasconde davvero dietro un contatto (magari un utente che ha lasciato acceso lo smartphone ed è andato a cucinare), forse non lo abbiamo capito davvero, ma non importa. Si può sonnecchiare anche nella saletta di una conferenza, no? Quel che temo è che quei numeri facciano girare la testa anche ai finanziatori della cultura.
Quale sponsor o fondazione bancaria donerà più qualche migliaio di euro (da spendere in treni, alberghi, cene per i relatori, affitto di locali, personale…) per un ciclo di conferenze che alla fine totalizzerà qualche centinaio di corpi reali di spettatori, quando con molto meno si possono raggiungere migliaia di contatti online?
Non sono un apocalittico. Né un tecnofobo. Credo che si possano fare grandi cose, per la cultura, nello spazio del web. Viva la cultura online. Ma non c’è un solo modo, per il go digital. E le accelerazioni improvvise, sotto la frusta di un’ansia e di una costrizione, possono imprimere una torsione particolare alle scelte. Chiuderanno le sale conferenze e le mostre? No, ma la tentazione di selezionare sarà più forte. Potrebbe crearsi un baratro fra pochi progetti culturali ammessi a esistere nel mondo fisico e altri costretti a ripiegare in quello virtuale, beninteso in forme meno costose e accurate (perché confezionare prodotti culturali di alta qualità online costa quanto farli nel mondo fisico, se non di più). Si porrà una scelta fra i due ambiti. Sceglieranno gli sponsor, i dirigenti delle istituzioni che cosa finanziare. Ma anche i destinatari sceglieranno come consumare. Davvero vale la pena andare fino a Torino o a Venezia per quella mostra? Sì, ma solo se mi interessa molto, e allora quell’altra me la vedrò online, ok, non è la stessa cosa, ma mi accontenterò di quel che c’è, pazienza. Chi sopravviverà a questo darwinismo? Abbiamo già vissuto qualcosa del genere. Lo dico da giornalista.
Quell’inquietudine dei produttori e delle istituzioni che dicevo all’inizio, quel terrore di scomparire dal radar, quella paura del «chi non c’è non ci sarà» ricorda molto da vicino l’ansia di «mettere cappello» sull’online, che agli albori del web impose ai giornali di lanciare propri siti di informazione totalmente gratuiti. L’esito di quella scelta iniziale lo conosciamo: la stragrande maggioranza degli utenti del web oggi dà per scontato che l’informazione debba essere gratis, e il tentativo di alzare qualche timido paywall, di mettere alcuni contenuti a pagamento, viene denunciato come intollerabile sfruttamento mercantile. Così i giornali muoiono. Temo che anche questa volta accadrà qualcosa di simile, e il biglietto del museo, l’iscrizione al corso, dopo, appariranno soprusi vergognosi.
Ecco, io temo che la sbornia di gratuità culturale di queste settimane di isolamento ucciderà la cultura. In questa travolgente tendenza, incassata senza neppure tanta gratitudine dai destinatari («Tanto, che cosa gli costa? Non deve neanche uscire di casa!»), lo si capisca o no, si nasconde la vecchia, deprimente idea del lavoro intellettuale come qualcosa che non è costato nulla produrre (anni di studio, libri comprati, viaggi, musei visitati, tempo di elaborazione...), come se il sapere venisse infuso alla nascita nel serbatoio della mente, e dispensarlo fosse poi una semplice, gioiosa apertura di rubinetto.
Poche settimane fa, il ministero per i Beni culturali ha lanciato una call per fotografi: documentare le settimane del lockdown con lavori che verranno selezionati per la pubblicazione da una competente giuria e premiati con… nulla. Anzi, peggio, con «visibilità» (la parola è scritta nel bando), cioè l’odiosa, umiliante proposta di scambio che i fotografi professionisti si sentono troppo spesso rivolgere dai clienti: «Non ho budget per te, ma ti offro visibilità». Se anche lo Stato, che dovrebbe sostenere la produzione culturale, finisce per approfittare delle difficoltà per incassare gratis, temo proprio che alla fine di questo periodo di cultura regalata a pioggia avremo abituato i destinatari a un’idea suicida: che produrre cultura sia un passatempo per chi la fa, un servizio gratuito per chi la riceve. E ci troveremo con un sistema culturale dissanguato, svalutato, ancora più dipendente da finanziamenti pubblici, o da sponsor e pubblicità che non lo faranno certo per generosità e amor di cultura. Chi si è tuffato nell’orgia in questi mesi forse dovrebbe, adesso, riflettere bene su questa auto-svalutazione del lavoro culturale che non «tornerà come prima», come molte altre cose dopo questa pandemia, se la accogliamo con l’hashtag #andràtuttogratis.
Insisto: lo spazio virtuale del web è una terra promessa sconfinata. Ma, per dirla con Fabrizio De André, «non regalate terre promesse a chi non le mantiene». Dopo esserci riparati nel rifugio online sotto i bombardamenti del Covid, rischiamo di uscire dal bunker e trovare, fuori, un paesaggio culturale digitale che ha rinunciato alle potenzialità di democratizzazione, diffusione, redistribuzione del sapere che pure contiene.
La cultura è un prodotto che costa denaro e sapere, non si improvvisa e non si svende, un campo di pratiche e costume, di socialità e scambio, che può essere solo integrato, oppure non èLa cultura è un prodotto che costa denaro e sapere; non si improvvisa, non si svende. La cultura è un campo di pratiche, anche di consumi, non c’è nulla di male a dirlo; un campo di socialità e scambio che può essere solo integrato, oppure non è. La mia biblioteca «invecchiata» dovrà ripensarsi. Ma l’idea di Welfare culturale che stava alla radice di quei preveggenti saggi amministratori con la licenza elementare è ancora valida: tocca al pubblico produrre strumenti di inclusione, restituzione di cittadinanza, per contrastare uno scenario di mercato che ci vuole super-forniti di contenuti, da consumare però nell’isolamento.
La mia vecchia cara biblioteca morirà, e perderemo un capitale sociale, se non saprà restare il luogo fisico di un servizio di comunità dove tutti i media, fisici e immateriali, dialogano fra loro. Qualcosa che ho visto funzionare negli Idea Store di Londra, veri propulsori e redistributori di senso di comunità, molto più che semplici biblioteche, non per nulla inventati da un bibliotecario italiano.
L’alternativa è un nuovo, paradossale, rovesciato digital divide, in cui i soggetti deboli avranno ampio accesso agli strumenti tecnologici ma non a quelli critici che permettono di selezionare e governare il seducente flusso di informazioni online a buon mercato; mentre i privilegiati saranno quelli che avranno le risorse materiali e intellettuali per comporre la propria dieta equilibrata di analogico e virtuale. I secondi prenderanno treni e pagheranno biglietti di mostre, musei, concerti; i primi si accontenteranno di quel che passa l’orgiastico convento del display.
Un artista, in questi mesi di sbronza, ha cercato di rimanere sobrio. Nick Cave, poliedrico musicista-regista-scrittore australiano, era stato tentato, anche lui, dal «fare qualcosa per mantenere vivo il mio slancio creativo e dare qualcosa da fare ai miei fan in isolamento», per esempio dei concerti live streaming coi suoi Bad Seeds. Poi ha scelto l’opposto: «È il momento di prestare attenzione, di essere consapevoli, di osservare, di metterci da parte e riflettere su quale sia esattamente la nostra funzione, perché esistiamo come artisti. Questo, in effetti, potrebbe essere il vero lavoro creativo di tutti».
Poteva essere una grande occasione: due mesi di riflessione nelle celle monastiche imposte dal virus. Cosa fare dopo, lo capisci meglio quando esci da una vacanza di pace e silenzio, che non tra i postumi di un’orgia. La abbiamo sfruttata?
[L'articolo è pubblicato sul «Mulino» n. 3/20, pp. 552-557. Il fascicolo è acquistabile qui]
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