Con la diffusione della pandemia da Covid 19 e la chiusura delle scuole, il tema della didattica a distanza (Dad) si è imposto nel discorso pubblico. Ma non è certo nuovo. Siamo in tanti a occuparcene, e da tempo.

Sull’ultimo numero del “Mulino” (n. 2/2020) ho letto le considerazioni di Mauro Piras (La scuola italiana nell’emergenza: le incertezze della didattica a distanza). Devo ammettere di avere provato un certo stupore per i modi sbrigativi e apodittici con cui vengono accantonati dubbi e perplessità che andrebbero un po’ meglio analizzati. E un certo rammarico, perché mi pare che si stia perdendo un’occasione per tentare qualche pensiero nuovo, e si finisca per riproporre considerazioni pre-Covid 19 su come andrebbe fatta una “buona” Dad. Le affermazioni contenute nell’articolo suonano pleonastiche, e la novità non può certo essere la “classe capovolta,” declinata al di fuori di ogni contesto, proposta come una soluzione efficace senza alcuna reale evidenza, senza nemmeno le usuali distinzioni disciplinari e socio-culturali.

Riassumendo in modo un po’ schematico, sembrerebbe che il vero problema con la Dad sia mettere a disposizione di tutti una connessione a banda larga e un tablet/pc efficiente. Poi, con questa bella dotazione tecnologica, si dovrebbe impiantare una didattica centrata sul discente, capovolta, con una spolveratina costruttivista, affiancando al ragazzo un docente, trasformato in tutor, impegnato in una valutazione formativa. Ed ecco che la nuova scuola è servita. Peccato che tutto questo, elaborato già attorno agli anni Novanta del secolo scorso, non abbia mai prodotto risultati concreti. Sono stati spesi fiumi d’inchiostro, e molti milioni di euro tra progetti nazionali ed europei, ma questa nuova didattica non hai mai visto la luce. Gli unici risultati sono stati grandi discorsi retorici, l’acquisto di un po’ di tecnologia, presto obsoleta, e qualche tentativo di corso, rapidamente cancellato.

Poi arriva il Covid 19, arrivano circolari confuse e abborracciate, un ministro più entusiasta che consapevole, e parte il più grande esperimento di didattica online mai visto, uno stravolgimento totale, un fenomeno che andrebbe guardato con attenzione e curiosità, vivisezionato, analizzato, interpretato. In questo periodo, sono stati distribuiti decine di questionari con l’intento di capire che cosa tutto ciò abbia significato: per la scuola, per le famiglie, per le identità dei soggetti coinvolti, per la società nel suo complesso; aspettiamo di vedere che cosa ci diranno, frenando un po’ il nostro irresistibile orgoglio di avere già capito tutto.

Restano però alcuni “fatti” sul terreno. Non si può liquidare la battaglia per la conservazione di spazi di autonomia, libertà, indipendenza di giudizio come una battaglia insignificante. Famiglie che magari in questi anni avevano resistito all’onda tecnologica, hanno dovuto cedere di schianto: i ragazzi dai 6 anni in poi tutti davanti al computer, è la scuola che lo chiede! Vi sembra poco? Domani tutti a scuola con il tablet! Non va discusso? Non più temi ma slide! È sicuro che si faccia così una valutazione significativa? Capovolgiamo la classe! E quando, e dove, e come, il ragazzo potrà ancora imparare dal maestro, dall’esperienza, dalla parola del docente? I docenti dimentichino i diritti sindacali, ora sono manager e devono lavorare 7 giorni su 7, 24 ore su 24! Ma in questo modo li si riqualifica o li si umilia?

Sincrono versus asincrono: cari bei vecchi dibattiti. Ma chi ha il tempo di registrare lezioni, preparare materiali di approfondimento, animare forum? È un modello vecchio e costoso, già superato, che resta in piedi solo per i MOOC (Massive Open Online Course), i quali, non per caso, sono sempre più spesso a pagamento, dedicati a chi può permetterseli.

D’accordo che la maggior parte della Dad durante questa pandemia non è stata una “buona” Dad. E probabilmente la conseguenza più grave di questo spericolato esperimento sarà un rigetto verso la Dad tutta, confusa con questo affaticarsi emergenziale e raffazzonato. Ma bisogna anche dire che la “buona” Dad è un sogno, un miraggio, un desiderio. Non esiste nemmeno come punto limite. E non esisterà finché ci ostineremo a vedere solo i problemi di banda larga, di digital divide, di modelli didattici.

Ormai è sempre più evidente, per chi lavora su questi temi, come non sia la tecnologia, intesa tanto in senso di apparati quanto di modelli, a produrre cambiamento e innovazione, ma ciò che conta è come questa s’incarni nella vita quotidiana delle persone. Quello di cui sarebbe importante parlare è proprio come la tecnologia interagisce con le norme e i contratti, come amplia o restringe gli spazi di espressione di sé, come detta i ritmi del nostro vivere quotidiano, come mescola privato e pubblico.

Così forse ci accorgeremmo che la Dad che abbiamo visto in questi tempi di Covid 19 è già una tecnologia incarnata, è già il nostro futuro, sta già aprendo e chiudendo possibilità alla scuola di domani. Questa Dad, più che migliorata, va capita.

Ad esempio, sarebbe interessante indagare come sia riuscita a imporsi, aprendosi spazi di consenso all’interno di processi sociali apparentemente strutturati e resistenti quali sono quelli che caratterizzano la scuola. E ancora, lungo quali linee di clivaggio sia riuscita a penetrare nella carne viva del rapporto tra alunni, docenti e genitori, percolando nelle più diverse realtà scolastiche, trovando sempre il cammino di minima resistenza, quasi che la scuola non aspettasse altro. Quasi che una scuola troppo spesso dequalificata, narrata come ultima fortezza Bastiani per la difesa di privilegi e diritti novecenteschi, abbia abbracciato la Dad come sua ultima possibilità di riscatto.

Scopriremmo così che, forse, questa Dad è il prodotto di processi di espropriazione e riconcettualizzazione molto più profondi, a partire da cosa debba intendersi per Bildung (la Formazione, con la “F” maiuscola), passando per la ristrutturazione degli spazi e dei ritmi di vita e arrivando alla messa in discussione dei concetti d’infanzia/giovinezza – invenzioni geniali della modernità –, ora forse non più utili ai meccanismi di produzione, così che il passaggio alla maturità non è più scandito dalla fine dello studio, ma la formazione è longlife, dura tutta la vita, come l’adolescenza. Senza considerare l’immenso vuoto che la scomparsa del corpo reale, come sinolo di percezione e pensiero, ha aperto nelle anime incantate dei nostri ragazzi, lasciandoli soli a fluttuare in spazi sintetici, alla spasmodica ricerca di un like da parte di qualcuno là fuori. Un processo a cui solo la nostra cara vecchia scuola sembrava potesse fare ancora argine, insieme a qualche polisportiva, forse.

Sono soli alcuni dei temi che dovremmo seriamente valutare quando parliamo di Dad, di apprendimento tecnologicamente assistito, di scuola, di studenti, di famiglia. Altro che flipped classroom, l’originaria classe capovolta. Qui c’è sicuramente qualcosa sottosopra, ma corriamo il rischio di non accorgercene, offuscati dai problemi tecnologici; e se ora sentiamo un po’ di capogiro, dovremmo prestare la massima attenzione a questa lieve sensazione di disagio, prima di farci l’abitudine.

Certo, posso capire che queste mie considerazioni possano lasciare il povero docente, alle prese con la Dad quotidiana, senza indirizzi operativi, senza nemmeno un piccolo decalogo, senza le preziose direttive che possano condurlo verso una didattica di successo. Il problema, a mio modesto parere, è che non esistono ricette risolutive: la matematica non è l’italiano, le scienze naturali non sono le attività motorie, una scuola allo Zen non equivale a una scuola ai Parioli. Sarà forse più interessante metterci a ragionare su come la Dad si sia adattata per cercare di attraversare tutti questi luoghi eterogenei, strisciando tra discipline e pratiche, piuttosto che dare ricette o consigli. Scopriremo così che la Dad è impossibile, ovvero, che è già cominciata.