La statua dedicata a Indro Montanelli negli omonimi giardini del centro di Milano è stata nuovamente imbrattata con vernice rosa e sul basamento in marmo è stato scritto “razzista e stupratore”. Era già accaduto l’8 marzo del 2019. In entrambi i casi quella vernice rosa voleva essere un atto d’accusa a quanto Montanelli fece in Etiopia nel 1935, arruolandosi volontario per la seconda guerra italo-etiopica.
Quando, il 9 maggio 1936, Mussolini proclamò nel suo celebre discorso dal balcone di piazza Venezia la nascita dell’impero dell’Africa orientale italiana (Aoi), Montanelli era già da tempo passato alle retrovie per lavorare all’Ufficio stampa e propaganda dell’esercito, prestando la sua penna al quotidiano "La Nuova Eritrea". L’impegno militare di Montanelli fu del tutto marginale, nonostante il suo ruolo di sottotenente di un battaglione eritreo fu ampiamente autocelebrato in uno dei tre volumi dedicati dallo stesso Montanelli alla sua esperienza africana: XX Battaglione Eritreo (1936).
Come è stato giustamente sottolineato dal dibattito pubblico di questi giorni, Montanelli non fece mai mistero, anzi si vantò, di aver beneficiato di quelli che erano i vantaggi sessuali accordati allo status del colonizzatore e conquistatore italiano attraverso la pratica del madamato. Fu proprio lui, il 12 febbraio del 2000, a raccontare dalle pagine del "Corriere della Sera", sulla rubrica a sua cura, La stanza di Montanelli, che durante la sua permanenza nel Corno d’Africa dovette «trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie» e allora si trattò «di stabilire col padre il prezzo» di quel contratto che era paragonabile «a un leasing, un uso a termine». 350 lire dell’epoca tutto compreso: sesso, biancheria pulita e tutti i servizi domestici che la dodicenne Destà, “quell’animalino docile”, come la definì lo stesso Montanelli in un’intervista del 1982, poteva assicurare al suo nuovo padrone.
Nella società coloniale, il madamato era il concubinato di un italiano con una donna africana che assumeva il carattere di una relazione temporanea, ma non occasionale. Il carattere subalterno di tali rapporti era più che evidente: la donna non poteva uscire dalla relazione senza il benestare dell’uomo e, viceversa, se le prestazioni della donna non venivano ritenute soddisfacenti dall’uomo, il rischio per la donna era quello di avere la sola alternativa della prostituzione. Montanelli, nel 2000, giustificava il suo comportamento come quello di tanti altri colonialisti italiani che fecero come lui, riversando la brutalità di quella pratica sulla costruzione razziale, intrinsecamente diversa, di quelle ragazze che «a quattordici anni sono già donne e passati i venti sono delle vecchie». Il ragionamento di Montanelli è rivelatore del regime di eccezione sul quale si fondava il colonialismo italiano: quel che in Italia sarebbe stato semplicemente un crimine, l’unione per mercede con una minorenne, in Africa diventava lecito e costituiva una parte importante di quei privilegi che definivano lo status di superiorità del colonizzatore. La gerarchia razziale della società coloniale, a partire dalla prima legge razziale del 1937, andò costruendo un vero e proprio regime di segregazione (e sfruttamento, oltre che sessuale anche del lavoro) dei sudditi africani.
Montanelli fu senza dubbio un fascista che convintamente abbracciò il progetto coloniale e ne condivise fino in fondo la dimensione intrinsecamente razzista. La militanza coloniale di Montanelli, di cui nel dibattito di questi giorni si è parlato molto meno, emerge in tutta la sua pienezza ricordando la lunga querelle che oppose Indro al più celebre storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, sulla questione dell’uso o meno dei gas urticanti e asfissianti da parte italiana durante la seconda guerra italo-etiopica. Montanelli negò strenuamente che un tale crimine potesse essere stato commesso dall’Italia, nonostante le denunce etiopiche fossero pervenute alla UN War Crime Commission già nel secondo dopoguerra. Solo nel 1995 Montanelli si arrese alle prove archivistiche trovate da Del Boca.
La storia di Indro l’africano traccia bene la parabola del colonialismo italiano che, con la proclamazione dell’impero nel 1936, portò il regime fascista al massimo dei consensi. Nel secondo dopoguerra il colonialismo finì per essere d’improvviso rimosso quando, nel 1949, il piano anglo-italiano per una spartizione delle colonie venne bocciato alle Nazioni Unite e l’Italia dovette accontentarsi della Somalia per poter dire di aver presieduto alla decolonizzazione di almeno uno dei suoi possedimenti. Il colonialismo italiano finì solo il 1° luglio 1960 con l’indipendenza dell’ultima colonia italiana sotto mandato fiduciario, la Somalia, ma da tempo l’Africa era stata rimossa dalla storia e dalla memoria italiane. Tutte le colpe e i crimini vennero addossati al fascismo e il colonialismo degli italiani ne uscì salvo. Da qui quel mito del buon italiano che ancora oggi persiste nell’opinione pubblica e fa gridare ad alcuni allo scandalo in relazione alla vernice rosa gettata sulla statua di Montanelli.
L’Italia postcoloniale non è semplicemente l’Italia che venne dopo il colonialismo, bensì l’Italia coloniale di epoca repubblicana di cui ancora si fa fatica a parlare, probabilmente perché in contrasto con quella narrazione rinfrancante della nascita della Repubblica dalla guerra civile italiana e dalla presa di distanza dal fascismo. Continuità fasciste e colonialiste sono in realtà due facce della stessa medaglia su cui occorre interrogare le nostre memorie private e pubbliche. In questo senso, non è togliendo una statua che si fa un buon servizio alla costruzione di una memoria critica; meglio allora risignificare quella statua.
Un dibattito simile si è articolato intorno al mausoleo dedicato alla memoria di Rodolfo Graziani, eretto nel comune laziale di Affile nel 2012 e per cui il sindaco, Ercole Viri, è poi stato condannato per apologia del fascismo. Più che abbattere il sacrario, sarebbe utile trasformarlo in un museo inteso a ricordare le vittime dei crimini coloniali italiani e di uno dei suoi più efferati comandati militari che, prima in Libia e poi in Etiopia, si rese colpevole dell’uso dei gas, dell’internamento di civili indifesi e di uccisioni di massa. Il punto è discutere pubblicamente della storia del colonialismo, mettendo possibilmente in dubbio quelle memorie edulcorate e autoassolutorie che, a partire dal secondo dopoguerra, si sono sedimentate nella coscienza degli italiani.
La rimozione delle statue è pur sempre una rimozione e rischia di essere un’occasione persa per parlare del passato coloniale italiano e della sua pesante eredità razziale. Le migrazioni odierne dall’Africa interrogano quotidianamente il nostro passato coloniale ed è dunque tanto più urgente dare delle risposte se non si vuole correre il rischio di veder crescere oltremodo i fenomeni di razzismo, intolleranza e vera e propria segregazione verso i lavoratori stranieri immigrati dall’Africa, “i nostri nuovi neri”, che fanno ritornare alla luce gli stessi pregiudizi razziali che nel passato si applicavano ai “nostri negri in colonia”. Nella consapevolezza che fu proprio il colonialismo a porre le basi di alcuni di quei meccanismi politici, economici e sociali che oggi stanno portando molti africani in Italia e in Europa, il ritorno di un discorso nazional-patriottico e della difesa dell’Italia dalla “invasione nera” ha già portato alla prima strage postcoloniale d’Italia quando a Macerata, il 3 febbraio 2018, un giovane razzista italiano, Luca Traini, ha attentato alla vita di sei cittadini africani: il maliano Mahamadou Touré, il gambiano Omar Fadera, il ghanese Wilson Kofi e i nigeriani Festus Omagbon, Jennifer Odion e Gideon Azeke. Quello di Macerata non fu il gesto di un pazzo, come venne dipinto dai principali mezzi di comunicazione nazionali, ma un atto premeditato e di matrice razzista, poiché le vittime furono selezionate sulla base del colore della pelle. Un tale atto razzista e omicida ha da tempo reso evidente l’urgenza della decolonizzazione delle memorie coloniali e il ripensamento delle odierne politiche di internamento, confinamento e sfruttamento dei lavoratori africani residenti in Italia.
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