Nel dibattito italiano attuale sulla gestione della crisi sanitaria, economica e sociale e sulle prospettive di sviluppo per il Paese c’è un punto che non è stato ancora evidenziato ma che appare invece cruciale: le proposte e le idee emerse sin qui, tanto dal governo e dagli attori politici quanto da molti osservatori esterni ed esperti, si concentrano molto sul cosa fare – su obiettivi e misure – ma sembrano trascurare il come. Il problema, cioè, è che si ragiona solo su obiettivi e azioni come se queste potessero essere slegate l’una dall’altra: fondi a pioggia sugli obiettivi, tante risorse alla capitalizzazione di impresa, molte idee sull'innovazione e su alcune misure bandiera, ma nessun incentivo a configurazioni pattizie nei territori, poca riflessione sulle modalità di costruire mercati locali e non, nessuna cura seria delle modalità di governo e delle regole di vincolo inclusivo nella programmazione, assenza di valutazione delle conseguenze e degli effetti perversi imprevisti delle azioni intraprese. Il rischio di un tale impostazione è che le misure, persino dove siano pensate per obiettivi opportuni, semplicemente falliscano nella loro capacità di produrre sviluppo locale poiché esse non generano meccanismi di integrazione e sinergia tra gli attori. Un tale fallimento, a fronte di una spesa pubblica così rilevante, avrebbe esiti tragici in termini di perdita di valore aggiunto manifatturiero e nell’economia dei servizi, incremento dell’insicurezza sociale e della domanda di autoritarismo e ulteriore riduzione delle opportunità per le giovani generazioni.
Per evitare questo rischio è invece più che mai urgente ragionare semmai sulle modalità per vincolare i trasferimenti ai territori a modalità di programmazione della spesa e della regolazione concertate fra gli attori locali protagonisti delle misure stesse, fra i corpi sociali che si sono radicati sui territori, con le rappresentanze dell’impresa e quelle del lavoro, con le organizzazioni della cittadinanza. Non si tratta di modalità di governo che includano solamente le rappresentanze sociali tradizionali e già affermate, ma semmai di trovare modalità nuove, che siano in grado, come insegnava Hirschman, di “riuscire a utilizzare risorse e capacità nascoste, disperse o malamente utilizzate”, quindi a intercettare anche i non rappresentati, gli attori capaci di innovazione ma magari marginali negli assetti consolidati, compresi quelli informali ma nondimeno reali e capaci di far presa effettiva sul tessuto sociale locale. Lo sviluppo richiede il coordinamento in situazioni di profonda incertezza: rilanciare una dinamica di sviluppo richiede istituzioni che favoriscano in ogni modo binding agents e connessioni. Pensare di fornire risorse e obiettivi e attendere risultati rilevanti sull’insieme dei territori italiani ci sembra non solo ingenuo, ma pericoloso. Semplicemente non ce lo possiamo permettere.
La sfida è politica e intellettuale, e richiama tutto il portato di quella stagione che Carlo Azeglio Ciampi, da ministro del Tesoro, aprì negli anni Novanta insieme a Fabrizio Barca e altri, per rilanciare una dinamica di sviluppo locale nel nostro Paese. Configurazioni pattizie, modalità di governo territoriale collaborative e inclusive, risorse attribuite sulla base di piani approvati con le parti sociali, concertazione sociale nei territori, programmazione partecipata, piattaforme democratiche di politica territoriale… Quella stagione ebbe il merito di riportare al centro dell’attenzione delle amministrazioni nazionali, regionali e locali la questione dell’eterogeneità costitutiva dei territori italiani e la necessità di promuovere modalità di governance collaborativa tra gli attori locali per garantire una effettiva capacità di risposta alla crisi di sviluppo che già allora stava emergendo.
Rilanciare quella intuizione non significa evidentemente non occuparsi più di obiettivi e risorse, come condizioni necessarie per lo sviluppo, bensì non ritenerle sufficienti. Il punto non è certo di bottega: nelle condizioni attuali di incertezza radicale sul come reagire allo shock della pandemia e della paralisi che questa ha generato, nessun attore da solo è disponibile ad assumersi responsabilità, sperimentare ed essere ambizioso nel fronteggiare la crisi. In una tale condizione, sostenere, incentivare, garantire coalizioni territoriali che affrontano in maniera collaborativa le sfide di questa fase ci sembra una terza condizione necessaria per fronteggiare le crisi. Ciò significa costruire integrazione sociale, occasioni di socialità e di supporto sociale verso individui vulnerabili e a rischio di disaffiliazione. Tali arene, naturalmente, richiedono anche composizione di interessi differenti, talvolta divergenti. Esse quindi implicano non solo una generica cooperazione, la quale da sola sarebbe illusoria e in ultima analisi sterile, ma anche capacità di concertare, cioè litigare, negoziare e mediare.
Vincolare la spesa per fronteggiare la crisi alla presenza di reali arene di governance collaborativa è la precondizione per la mobilitazione degli attori e l’implementazione efficace delle politiche. Senza tali arene in cui collaborazione e concertazione fra attori siano possibili, nei territori sarà difficile l’assunzione di rischi, il disegno organico, l’intelligenza delle priorità, la capacità di reazione rapida, i processi di integrazione tra settori drasticamente compartimentati.
Varrebbe la pena fare esempi in ogni settore, ma prendiamo la scuola su cui giustamente molte analisi convergono. Il suo funzionamento a distanza ha indurito e aumentato le diseguaglianze, sia quelle di classe sia quelle territoriali. Non sarà però sufficiente aumentare le risorse per la riapertura a settembre: servirà sperimentazione, capacità di interrompersi, cercare un’altra strada, rilanciare, istituire responsabilità condivise fra autorità scolastiche, prefettura, Asl, sindacati, Comuni, e terzo settore. Le accuse morali mosse in queste settimane a insegnanti [sic!], assessori ed enti funzionali non aiutano certamente a entrare in questa ottica di interdipendenze. Questa capacità di sostenersi insieme nell’esplorazione, nella definizione di regole e procedure provvisorie, nel monitoraggio attentissimo degli sviluppi e delle conseguenze delle scelte fatte, non si dà in natura. È un prodotto politico: richiede norme e incentivi che agevolino e anche pretendano la collaborazione. Ugualmente, il rispetto fra attori non si dà in natura, è l’esito politico di un processo istituzionale che richiede un lavoro comune.
Mille altri esempi potrebbero essere fatti sulle grandi sfide che la pandemia ha posto alle società locali: riallacciare i rapporti fra sanità territoriale e ospedaliera, includendo il fondamentale settore socio-sanitario e socio-assistenziale in assetti di Welfare che invece in questi ann lo hanno marginalizzato. Ugualmente, proteggere dalla povertà integrando strumenti di sostegno al reddito, di formazione professionale, e di creazione di occupazione non è certo una sfida da meno in una fase di recessione economica e compressione dell’economia del turismo. Ciò che accomuna queste attenzioni all’integrazione sul territorio degli interventi, alla fin fine, è ciò che Arnaldo Bagnasco ci ha insegnato a chiamare organizzazione sociale.
L’efficacia collettiva, per riprendere un concetto caro a un altro grande sociologo urbano – Robert Sampson – non richiede buona volontà e mimetismo da buone pratiche inclusive. Semmai ha bisogno di vincoli e incentivi finalizzati a esigere e produrre le arene istituzionali necessarie a far funzionare la collaborazione e la concertazione sul territorio. La partecipazione degli attori locali, in questo senso, non è un orpello secondario o superfluo richiesto da sindacati e terzo settore, ma una condizione di possibilità per lo sviluppo. La partecipazione non dipende solo dalla volontà e dalle intuizioni di attori del territorio, ma da un buon mix di regole e incentivi che vincolano la spesa per lo sviluppo a piani territoriali concertati: lo sappiamo, gli attori si mettono in gioco quando sanno di poter far la differenza e vedono margini per processi evolutivi in arene stabili.
Pensare a questa dimensione di integrazione territoriale ha evidentemente anche dei rischi, che conosciamo bene dall’esperienza degli anni Novanta e Duemila: più ci si spinge in una direzione area based e più le disparità territoriali diventano evidenti. Ma sappiamo anche che quelle disparità (con il loro correlato di corruzione, clientelismo, comportamenti predatori) sono comunque presenti, ed entrano in gioco anche se si spera di poter governare la crisi attraverso un governo centralizzato per obiettivi e indicatori. Si tratta allora, semmai, di ripensare i rapporti centro-periferia vincolando il trasferimento di risorse all’elaborazione effettiva (e non solo sulla carta) di piani condivisi fra gli attori sociali e istituzionali locali che aiutino parzialmente ed evolutivamente a ridurre alcuni dei mali che caratterizzano i territori.
Questi stessi strumenti di governo territoriale, inoltre, non furono esenti da alcuni effetti perversi, come un eccessivo proceduralismo, una struttura di incentivi che favoriva talvolta comportamenti opportunistici, una carenza di risorse che spesso scoraggiava la partecipazione degli attori. Inoltre, la stessa coalizione politica che promosse quella stagione di politiche non fu sufficientemente in grado di difenderla e valorizzarla e ciò portò rapidamente ad un suo superamento già sul finire della legislatura 1996-2001. Quegli strumenti possono quindi anche essere superati e se ne possono introdurne di nuovi o prendere esempio da alcune innovazioni sperimentate in questi anni, come la Strategia Nazionale Aree Interne, che ha mostrato come sia possibile scovare gli innovatori sul territorio e superare così le rendite di posizione dei rentier locali. Le modalità di spesa, in questo senso, andranno necessariamente allineate alle nuove modalità di governance sul territorio. Ciò che rimane essenziale, però, è tornare all’ispirazione iniziale di quella stagione e guardare alle modalità di governo come costitutive della possibilità stessa di affrontare le sfide di ricostruzione che questa crisi impone.
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