Il 20 maggio si è registrata in Senato l’ennesima bocciatura di due mozioni di sfiducia individuale. In questo caso entrambe contro il ministro della Giustizia Bonafede. Da un lato vi era quella delle forze di centrodestra, primo firmatario Romeo, che di fatto aderiva alle critiche del magistrato Di Matteo contro il ministro. Dall’altro lato vi era quella di opposto contenuto garantista con prima firma Bonino.

Va premesso che, a fronte di diverse censure, anche in questo caso come in altri palesemente divergenti nelle motivazioni, a norme vigenti appare corretta la prassi, seguita dal Senato, come nel caso precedente del 21 marzo 2019 contro il ministro Toninelli, anch’egli allora oggetto di due diverse censure, di procedere a una discussione congiunta, ma con votazioni separate. Tuttavia, anche stavolta si ripropongono alcuni interrogativi di fondo.

Dopo trentacinque anni di esperienza credo si tratti infatti di fare un serio bilancio e, come dirò tra breve, di concluderlo in un senso ben preciso, ossia di prendere atto che si tratti di uno strumento che può solo aggiungere confusione, senza risolvere nulla, abbandonandolo definitivamente e sostituendolo con uno più adeguato e conforme alla logica di una democrazia parlamentare. Se infatti un qualsiasi partito di una qualsiasi coalizione vuole solennemente sfiduciare un ministro che sia ancora sostenuto da una forza politica, come quasi sempre accade, e come anche stavolta era il caso, quest’ultima finirebbe col sentirsi colpita e provocherebbe sicuramente una crisi di Governo. Non volendo di norma nessuno assumersi la responsabilità, lo strumento è destinato di norma solo a provocare momentanee tensioni per risolversi infine in un nulla di fatto concreto.

Se si vuole uno strumento ragionevole per fare pressione su un ministro e sul relativo partito o, in caso, più raro, di ministro abbandonato a se stesso, ma restio a lasciare la carica solo su di lui, bisogna invece introdurre in Costituzione il potere del presidente del Consiglio di chiedere la revoca al presidente della Repubblica, esattamente come accade per la nomina. Potere la cui esistenza può anche portare il ministro a preferire prima la strada delle dimissioni.

Ovviamente, qualora il ministro fosse ancora sostenuto da un partito, bisognerebbe comunque convincere anche il partito medesimo per ottenerne la revoca, ma non con la forma di una bocciatura solenne non accettabile per nessuno. Non è un infatti caso che la sfiducia individuale si usi solo da noi, mentre il potere di revoca è presente in tutte le grandi democrazie che prevedono il rapporto di fiducia.

Ovviamente contro queste conclusioni si può anzitutto citare l’unico caso di successo della mozione, quello del 19 ottobre 1995 contro il ministro della Giustizia Mancuso, solennemente legittimato dalla sentenza 7 del 1996 della Corte costituzionale. Caso di ministro restio a dimettersi non sostenuto più da nessuna forza della maggioranza. L’argomento, però, spiega solo perché lo strumento al momento possa essere utilizzato, ma non è per niente risolutivo sull’opportunità di usarlo davvero né su quella di mantenerlo nel nostro ordinamento.

Al contrario la sentenza 7 del 1996, come vedremo puntualmente tra breve, non appare per niente convincente. Prima però di entrare nel merito di essa vale la pena di chiarire il contesto istituzionale e la storia dei quell’istituto.

Il contesto di partenza in cui esso fu introdotto (alla Camera nel 1986 anche con modifica espressa del Regolamento novellando l’articolo 115, al Senato in via di prassi) era quello di Governi di coalizione che legittimamente si basavano solo sulla fiducia parlamentare, senza il plusvalore politico di derivare da un chiaro verdetto elettorale. Governi a cui siamo tornati nel periodo recente. In questo contesto l’esistenza di uno strumento di tal genere aggrava i problemi di coesione già con la sua presentazione, prima ancora del voto. Esso consente di cogliere fior da fiore, permette di mettere pressione sugli alleati che devono sopportare il ministro X, ma sopportare X fa parte del gioco della democrazia parlamentare di coalizione: io sopporto X, tu sopporti Y e - ovviamente - le loro politiche, o la loro torsione di politiche che dovrebbero essere comuni.

Ma perché allora esso fu introdotto? Paradossalmente, allora, a metà degli anni Ottanta, per rafforzare gli esecutivi in un contesto in cui si poteva ricorrere molto facilmente (fino al 1988) al voto segreto. Si trattava di evitare senza porre la fiducia (che all'epoca era considerato segnale di debolezza politicamente inopportuno e comunque spesso non accettato dagli alleati) che si votasse a scrutinio segreto in accordo con pezzi dell'opposizione contro questo o quel ministro di partito alleato, distruggendo così la coesione di maggioranza. Fu pertanto deciso che la mozione di sfiducia individuale andasse equiparata a quella di fiducia tout court: dunque da votarsi a scrutinio palese con chiamata nominale, depotenziandone gli effetti.

Un'invenzione contingente occasionata da vicende dell'epoca (in particolare l’esigenza di difendere meglio i ministri Dc Donat Cattin e Falcucci), fu poi legittimata dal caso del ministro della Giustizia del governo Dini Filippo Mancuso, ministro tecnico, sempre più sgradito all’intera maggioranza, di un Governo tecnico. Lo si voleva sostituire, ma il potere di revoca non esisteva e allora si utilizzò la sfiducia individuale come strumento succedaneo. Dopo la limitazione del voto segreto nel 1988 le uniche ragioni positive sono però venute meno.

La Corte costituzionale si trovò a decidere sul ricorso del medesimo Mancuso che tendeva a inficiare in un colpo solo i comportamenti della maggioranza che lo aveva sfiduciato e dei presidenti del Consiglio e della Repubblica che lo avevano revocato sulla base del voto della mozione. L’esito era quindi scontato a suo sfavore per comprensibili ragioni di opportunità costituzionale, ma questo non ci impedisce affatto di leggere criticamente le motivazioni della sentenza.

Essa, se leggiamo puntualmente il considerato in diritto parte da un primo assunto piuttosto debole: se il testo costituzionale non parla della mozione individuale la questione sarebbe stata da considerarsi impregiudicata. Il punto è che le norme costituzionali di razionalizzazione del rapporto Parlamento-Governo hanno senso solo se non sono aggirabili e tali devono appunto essere considerate. Altrimenti la loro forza prescrittiva sarebbe pressoché nulla. Ammettere che possano sorgere consuetudini costituzionali del genere rispetto al testo dell’articolo 94 che prevede solo la sfiducia all’intero Governo non significa ammettere un’integrazione, ma una via più facile e quindi obiettivamente alternativa. La sfiducia individuale non integra l’articolo 94, ne riduce la forza.

Superato così, non convincentemente, questo primo ostacolo, la Corte doveva poi dimostrare che oltre che impregiudicata la questione non fosse incoerente con l’interpretazione sistematica della Costituzione. Qui ha cercato di cavarsela cercando di confutare l’argomento forte in senso contrario della simmetria con la nascita del rapporto fiduciario che avviene nei confronti di tutto il Governo: perché sarebbe ammissibile sfiduciare un ministro se il Governo nasce in Parlamento come un insieme, sulla base di un equilibrio complessivo? La Corte propone allora l’argomento del ministro dissenziente rispetto alla collegialità di governo. Così facendo, però, la sentenza coglie l’unico problema vero e la vera questione sottostante, ma individua uno strumento non congruo. Se un ministro è dissenziente rispetto all’indirizzo del Governo ciò porta logicamente a proporre di introdurre in Costituzione la possibilità della revoca da parte del Presidente del Consiglio (meglio, della proposta di revoca se si vuole mantenere un parallelismo con la nomina ex articolo 92) e non la legittimità della sfiducia individuale. Con la revoca il presidente del Consiglio fa valere contro il dissenziente l’indirizzo complessivo; la sfiducia individuale, invece, può portare a maggioranze variabili a favore o contro ogni singolo ministro. Per contrastare questa obiezione la Corte allora sostiene che in ogni caso il presidente del Consiglio può spostare la questione sull’intero governo, come effettivamente accade quando il ministro è ancora espressione di una forza politica, il che però equivale a dire che la mozione è legittima perché può essere facilmente assorbita: un argomento del tutto realistico, ma paradossale.

Fuori da questa regolarità, che si è sempre riproposta prima e dopo il caso Mancuso, è evidente che, di norma, il ministro dissenziente rimasto isolato si ritiri comunque: sia che si tratti di un Ministro tecnico, sia di un ministro politico che non goda più del sostegno del suo partito che magari ritenga più opportuno sostituirlo con un altro, anche per possibili pressioni di alleati o dello stesso presidente del Consiglio.

Perché allora insistere con la proposta della revoca? Ne abbiamo davvero bisogno? L’obiezione a prima vista sembra fondata, anche se il fatto che figuri in tutte le principali Costituzioni con rapporto fiduciario dovrebbe già dirci qualcosa. Se infatti la revoca esiste, il ministro revocando è naturalmente portato ad anticiparla con le dimissioni; in sua assenza vi è invece la tentazione di resistere da parte del ministro revocando, giacché esso potrebbe essere rimosso solo passando per una crisi formale di governo che è molto costosa da attivare. Mancuso non si sarebbe dimesso in assenza di potere di revoca.

In questi casi, niente affatto impossibili, perché ricorrere ad un espediente incongruo, di logica assemblearista, quando vi è la fisiologia della proposta di revoca, classica nelle forme parlamentari? Forse dall’ennesima bocciatura può venire l’incentivo per rimediare.