Immaginate di stare tornando a casa, dopo un aperitivo con gli amici. È una di quelle serate di ottobre che sembrano ancora estive, in una qualsiasi città d’Italia. Vi arriva sul telefonino una notifica dalla nuova app dell’Inps. Vi dice che, nelle ultime 48 ore, siete entrati in contatto ravvicinato (a meno di due metri) con individui positivi al Covid-19, che vi è stato fissato un appuntamento domani alle 8,30 nella Asl più vicina per sottoporvi al tampone rapido, che il vostro datore di lavoro vi ha dato un permesso per andarci, che tutti i vostri appuntamenti sono stati cancellati dalla segreteria e che, ove risultaste positivi, dovrete rientrare a casa e mettervi in isolamento per due settimane; il permesso si trasformerà in congedo per malattia e i dossier di vostra competenza verranno trasferiti ai vostri colleghi. Automaticamente, sul telefonino si scarica un’altra app che raccoglierà i dati del decorso della malattia, se sarete positivi, e vi notificherà quali cure fare. La prima app, quella di tracciamento, registrerà i vostri spostamenti all’interno di una certa area – segnalando se uscite da casa prima della fine della quarantena.

Questo è un esempio di fantasia, ma non tanto è lontano dalla realtà che potremmo trovarci a vivere nei prossimi mesi. Secondo molti l’uso di tecnologie di tracciamento sarà necessario nelle fasi di allentamento del lockdown. Ne ha parlato il ministro Speranza su "la Repubblica" di lunedì 4 aprile. Il 26 marzo scadeva un bando del ministero per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione per progetti di dispositivi e applicazioni di raccolta dati e tracciamento. D’altra parte, fin dall’inizio del lockdown in Italia molti hanno contrapposto la strategia del governo italiano a quella adottata in Corea del Sud: fare i test a moltissime persone e tracciarne gli spostamenti, in modo da indurli a evitare ulteriori contatti. Il 31 marzo è comparso un articolo che valuta l’impatto sul contenimento dei contagi dell’uso di una applicazione di tracciamento. Peraltro, esistono già applicazioni di questo tipo.

Ma, anche ammettendo la disponibilità di esami per la maggior parte delle persone (senza i quali il tracciamento sarebbe inutile), bisognerebbe decidere che cosa fare, concretamente, una volta conosciute le condizioni di salute e gli spostamenti dei positivi. La quarantena sarà volontaria (o addirittura sarà volontaria la decisione di fornire i propri dati)? Oppure il governo imporrà ai cittadini tanto il tracciamento quanto l’isolamento? Si possono imporre così serie limitazioni della libertà a cittadini che, si ricordi, non sono colpevoli di reato, ma solo ammalati?

Immaginiamo, ad esempio, l’ipotesi di un individuo che sia positivo, ma del tutto asintomatico – quello che più correttamente si potrebbe chiamare un portatore sano di Covid-19. Accetteremmo che una legge imponga a questo cittadino l’isolamento completo e l’interruzione completa di tutte le attività che non può fare da casa? Si potrebbe sostenere che, tutto sommato, si tratti della legittima richiesta di non danneggiare altri cittadini. Ma, in realtà, stiamo chiedendo a un innocente che, non per sua colpa, si trova nella posizione di poter danneggiare altri di accettare lo stesso trattamento che infliggeremmo a chi, non innocente, ha arrecato un danno ad altri – una sorta di arresto domiciliare. Questo è il primo problema che un’etica del tracciamento dovrebbe risolvere: come operare in maniera da rispettare l’eguaglianza di trattamento di fronte alla legge che è dovuta ai cittadini? Perché qualcuno dovrebbe sopportare limitazioni della propria libertà e dei propri diritti solo perché ammalato, o perché portatore sano? Non si rischia di discriminare i cittadini in base a elementi di cui essi non hanno il controllo?

E si possono immaginare gli effetti sociali – di stigma, diffamazione, allentamento della solidarietà sociale e del senso di eguaglianza – che causerebbero l’inevitabile sparizione dal lavoro e dai luoghi della vita sociale di alcuni cittadini. Per non parlare del clima di sospetto, dei possibili tentativi di evitare il tracciamento, celando le proprie abitudini, le proprie compagnie, i propri stili di vita. O degli usi fraudolenti del sistema, appunto a scopo diffamatorio o persecutorio.

Come molti hanno osservato, il tracciamento pone un problema relativo alla tutela della privacy. Se le app di tracciamento sono private, i dati potrebbero essere commercializzati in maniera impropria, cioè senza il permesso degli utenti e senza corrispondere loro il dovuto – come avviene sempre più spesso nel cosiddetto capitalismo della sorveglianza di cui parla Shoshana Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, 2019). Se si tratta di app pubbliche, come nell’esempio da cui sono partito, ci sarebbe comunque il rischio di uso improprio dei dati da parte del governo.

Inoltre, il tracciamento rischia di rendere più facile limitare o violare diritti non connessi direttamente al possesso dei propri dati, ma che si fondano sulla possibilità di averne il controllo: per esempio, il diritto di muoversi liberamente o di condurre certe attività. Infine, un altro problema è che accettare il tracciamento come pratica sociale diffusa può indurre maggiore tolleranza a queste limitazioni di diritti e libertà, rendendo leciti sentimenti e condotte deteriori, come la delazione, lo stigma sociale, l’acquiescenza e la mancanza di quello spirito critico che dovrebbe essere tipico dei cittadini attivi delle democrazie funzionanti.

Tuttavia, si può pensare che il diritto alla privacy non sia assoluto, ma si debba bilanciare, soprattutto in condizioni di emergenza, con altri diritti, come quello alla salute. Il bilanciamento è una strategia plausibile, soprattutto se conduce a restrizioni strettamente necessarie, proporzionate e solo temporanee del diritto alla privacy. Questa è la prospettiva del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali, del 2016 e quella espressa dal Garante per la privacy. E il diritto alla privacy deve cedere il passo a doveri negativi: se per avere il controllo dei nostri dati dovessimo infliggere un danno a terzi innocenti, ci si potrebbe chiedere di rinunciare alla riservatezza, in molti casi.

Ma la possibilità di un trattamento discriminatorio privo di basi non si evita né ponendo limiti temporali, né invocando un bilanciamento di diritti. L’idea di costringere, ma anche di invitare, alcuni cittadini a non esercitare diritti che invece sono concessi agli altri e di infliggere loro i danni materiali e psicologici della quarantena mi sembra indifendibile, anche se fosse temporanea. Non si tratta di limitare i diritti di tutti per consentire eguaglianza nella fruizione del diritto alla salute. Si tratta di chiedere ad alcuni un sacrificio, per il beneficio di altri. (E, forse, si tratta di chiedere un sacrificio a maggioranze per il beneficio di minoranze.) A questo punto, forse meglio il lockdown generalizzato e l’apertura generalizzata; se veramente crediamo che l’isolamento sia il mezzo per prevenire il contagio, allora forse meglio impegnarsi tutti, piuttosto che chiedere ad alcuni di farlo per il nostro bene.