Ci voleva il Coronavirus per far vedere alla luce del sole, per chi non se ne era già accorto prima, l’inconsistenza di un’Unione europea fatta di Stati sovrani e retta da accordi tra governi nazionali? No, forse non è bastata neppure una pandemia che ha colpito, sia pure con intensità diversa, tutti i Paesi, con quelli europei, al momento, in prima linea. La resistenza dei governi tedesco, olandese ecc. all’idea degli Eurobond non è dovuta solo alla sfiducia (peraltro in buona parte meritata) nei confronti dei Paesi debitori, ma è dovuta soprattutto al rifiuto degli Stati membri di rinunciare al monopolio nel prelievo fiscale. La sovranità fiscale è l’unico, ma decisivo, pezzo di sovranità che è rimasto agli Stati nazionali europei.
Hanno perso di fatto gran parte della sovranità militare, mettendola nelle mani della Nato, cioè del potente alleato americano. Hanno perso la sovranità monetaria, cioè il monopolio di batter moneta, affidandolo alla Bce. Hanno perso pezzi consistenti della sovranità legislativa, poiché per far funzionare un mercato di grandi dimensioni hanno dovuto uniformare molte leggi e recepire la legislazione europea. Hanno perso altri pezzi di sovranità giudiziaria affidando molte controversie alla Corte europea di giustizia.
Ma c’è un pezzo della sovranità che gli Stati hanno mantenuto intatto in mano loro: il potere di prelevare una parte della ricchezza prodotta da una collettività per redistribuirla in base a criteri politici è una prerogativa fondamentale da quando lo stato come istituzione è nato nella pianura del Tigri e dell’Eufrate. Questo è il pezzo di sovranità che gli Stati nazionali europei, anche nella fase storica del loro inevitabile declino, conservano gelosamente e difendono coi denti. Non vogliono aumentare il bilancio dell’Unione oltre l’1% del Pil e, soprattutto, vogliono essere loro, ognuno del 27 Stati membri, a versare nelle casse di Bruxelles la somma, tutto sommato modesta, di 160 miliardi di euro ogni anno. Non mollano, vogliono tenere la borsa stretta nelle loro mani.
Dopo una trattativa lunga e faticosa sembra che i ministri dell’Eurogruppo abbiano trovato un accordo, tirando fuori grosso modo 1.000 miliardi di euro, un po’ dal Mes, un po’ dalla Bei, un po’ dall’istituendo fondo europeo per la disoccupazione (Sure) e una metà da una promessa ancora alquanto generica di costituire un fondo per la rinascita e lo sviluppo (recovery fund).
Molto probabile che 1.000 miliardi non siano sufficienti per evitare una pericolosa recessione dell’economia europea, ma si tratta comunque di una bella somma. Di questi tempi, meglio accontentarsi. Forse neppure Salvini, che accusa il governo di avere svenduto l’Italia, avrebbe, se fosse al governo, il coraggio di rifiutarli sdegnosamente, ritenendoli un oltraggio all’orgoglio nazionale.
Pensate però che significato simbolico (ma i simboli quando di tratta di fiducia sono decisivi) avrebbero avuto questi stessi 1.000 miliardi se invece di essere stati strappati da Paesi con l’acqua alla gola a paesi che forse ce la farebbero anche da soli se fossero stati erogati mediante titoli di credito garantiti da un (per quanto piccolo) Tesoro europeo, alimentato da una qualche forma di tassazione europea. Ne sono state proposte tante (dagli studiosi, non dai membri dei governi): la carbon tax, la Tobin tax, la digital tax ecc. Sarà compito degli esperti trovare la soluzione più adeguata. In questi 1.000 miliardi i cittadini europei riconoscerebbero il loro contributo al bene comune europeo, sarebbero 1.000 miliardi che rafforzerebbero il loro sentimento di appartenenza all’Unione. E non sarebbe neppure una tassazione aggiuntiva, un aumento della pressione fiscale, perché sarebbe uno strumento per coprire spese che i singoli Stati, in modo probabilmente meno efficiente, avrebbero comunque dovuto fare.
Quale sarà invece, sempre ragionando sul piano della psicologia collettiva dove contano i simboli, l’effetto di questa massa di denaro? Agli occhi di una parte dell’opinione pubblica dei Paesi creditori sarà visto con un ennesimo atto di generosità nei confronti di Paesi mal governati e di popoli poco virtuosi che non solo non saranno riconoscenti, ma penseranno di essere offesi nella loro dignità; agli occhi di parte dell’opinione pubblica dei Paesi debitori saranno visti come espressione dell’egoismo dei paesi/popoli ricchi che vogliono umiliare i Paesi/popoli poveri. Risultato: benzina sui nazionalismi degli uni e degli altri. Già sentiamo riaffiorare in Italia latenti sentimenti anti germanici che mettono insieme gli austriaci nemici del Risorgimento e i nazisti che hanno invaso il paese dopo l’8 settembre. E in Germania latenti sentimenti anti italiani, gli italiani che ci hanno tradito due volte, nel 1915 rompendo la Triplice e nel 1943 lasciandoci soli a fronteggiare gli alleati. Non bisogna mai trascurare la forza e la resistenza dei pregiudizi.
Ci rendiamo conto che tutto questo sarebbe stato evitato se si fosse dato al Parlamento e alla Commissione europea il potere di aumentare in modo autonomo le risorse a loro disposizione dall’1 al 2% del Pil dei 27 Paesi per poter affrontare in modo coordinato ed efficace il percorso verso la ricostruzione dell’economia europea?
Allora, ribaltando il motto dei coloni americani contro la Corona britannica, la parola d’ordine degli europeisti in questa fase storica dovrebbe essere: no “representation without taxation”.
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