Per la prima volta dal ritorno della democrazia, la Spagna non ha un governo monocolore, ma di coalizione. Lo ha reso possibile un risicato voto di fiducia (167 voti a favore, 165 contro) ottenuto dal socialista Pedro Sánchez il 7 gennaio scorso al Congresso dei deputati. Determinanti sono state le 18 astensioni degli indipendentisti catalani di Erc e baschi di Eh Bildu. L’inedito esecutivosi fonda su un patto di legislatura tra Psoe e Unidas Podemos (Up), cioè tra la forza più longeva della politica e della sinistra spagnola e la nuova sinistra nata dal movimento degli indignati, dal travaglio della famiglia politica comunista e dalla necessità del variegato mondo eco-ambientalista di trovare uno sbocco non aleatorio sul piano politico. Il nuovo governo è il più numeroso dal 1978, dopo il terzo Suárez (1979-81). Conta quattro vicepresidenze, una delle quali affidata al leader di Podemos Pablo Iglesias, e 18 ministri, 11 dei quali donne. Anche se con alcuni aggiustamenti delle competenze, 11 sono pure le conferme alla guida dei ministeri. Considerando anche le vicepresidenze, delle 22 caselle 17 sono andate al Psoe e 5 di Podemos, che ha avuto anche 4 dei 28 viceministri.
Sánchez, confermando Teresa Ribera al ministero della Transizione ecologica, l’ha ascesa a una delle vicepresidenze, sottraendo competenze a Iglesias, nel cui ambito avrebbe dovuto ricadere, con l’Agenda 2030, lo sviluppo sostenibile. Le altre due vicepresidenze hanno visto la conferma di Carmen Calvo (Coordinamento ministeri, rapporti con le Cortes e Memoria democratica) e Nadia Calviño (Economia). Agli Esteri è andata Arancha González Laya; alla Giustizia l’ex magistrato Juan Carlos Campo; agli Interni e alla Difesa confermati rispettivamente Fernando Grande-Marlaska e Margarita Robles. In quota Podemos, oltre a Iglesias, sono Yolanda Díaz (Lavoro), Irene Montero (Uguaglianza), Alberto Garzón (Consumo) e, voluto dalla sindaca di Barcellona Ada Colau per En Comú, l’alleata di Podemos in Catalogna, il sociologo Manuel Castells (Università).
Il nuovo esecutivo, oltre a essere paritario per le questioni di genere, presenta solidi profili sia dal punto vista della formazione, sia da quello delle competenze maturate sul piano politico e amministrativo, spesso nei piani alti di organismi internazionali. Volendo riassumerla, la sua cifra programmatica sta nell’impegno per una più equa distribuzione del reddito, nella riduzione delle disuguaglianze e nella priorità assegnata al mutamento climatico, alle energie rinnovabili nel quadro dello sviluppo sostenibile.
Non è stato facile il cammino per giungere a questa soluzione. Dopo la ristrutturazione della destra negli anni Ottanta con la nascita del Pp, la Spagna aveva visto alternarsi alla guida del governo socialisti e popolari, che quando non raggiungevano la maggioranza assoluta dei seggi, cercavano (ottenendolo), il voto di fiducia o l’astensione, dei partiti minori, in particolare di quelli nazionalisti catalani e baschi, in cambio di vantaggi fiscali per le rispettive Comunità Autonome o di ulteriori trasferimenti di competenze. Dal 2015 la frantumazione dell’offerta politica ha messo in crisi il sistema dei partiti e, con la crisi catalana scoppiata nel frattempo, l’architettura politico-territoriale disegnata dalla Cosituzione del 1978. Ne ha sofferto la governabilità e nessun partito ha raggiunto la soglia dei 176 seggi necessari all’investitura del presidente del governo, perché la dura contrapposizione tra Psoe e Pp ha reso impraticabile il varo di una grande coalizione, perché il retaggio di culture politiche poco avvezze alla mediazione ha ostacolato la nascita di governi di coalizione tra affini.
Il culmine dell’impasse si è raggiunto dopo le elezioni del 28 aprile, a causa di due ostinazioni. Quella di Sánchez soprattuto, inizialmente contrario a governare assieme a Podemos, poi rassegnatosi a patto di lasciare all’alleato un ruolo marginale e per giunta con un veto posto all’ingresso di Iglesias nell’esecutivo. Ma anche quella di Iglesias, che pur accedendo generosamente al diktat che lo escludeva dall’esecutivo restava esoso nelle richieste di competenze, se non di ministeri. Così Sánchez, convinto che gli elettori lo avrebbero premiato, è andato a nuove elezioni, che il 10 novembre si sono risolte in un boomerang, visto che pur confermando il primato socialista hanno visto Psoe e Podemos perdere complessivamente un milione mezzo di voti. A questo punto Sánchez, nel giro di 48 ore, ha siglato un preaccordo con Podemos per un governo di coalizione e dato avvio a vari negoziati in parallelo: con Podemos per approfondire la proposta politica programmatica e con tutti i partiti nazionalisti presenti nelle Cortes per convincerli al voto favorevole o almeno all’astensione. Astensione poi ottenuta dagli indipendentisti di Erc, a cui si sono aggiunti quelli baschi, in cambio dell’apertura di un tavolo negoziale tra i governi di Madrid e di Barcellona, dopo che Sánchez aveva ammesso natura politica del conflitto catalano e criticato la “deriva giudiziaria” che la questione aveva imboccato durante i governi di Rajoy.
Apriti cielo: nel dibattito che si è svolto al Congresso dei deputati il 4, 5 e 7 gennaio la destra si è ricompattata e, senza apprezzabili sfumature neppure nei toni tra i popolari, Vox e il residuale drappello di Ciudadanos, ha attaccato sguaiatamente Sánchez come traditore, minaccia per l’unità della Spagna e per aver ceduto alle richieste dell’indipendentismo catalano. È stato un segnale premonitore del tipo di opposizione che il governo dovrà affrontare, confermato pochi giorni dopo dalle veementi critiche alla nomina dell’ex ministra della Giustizia Dolores Delgado, a Fiscal (Pubblico ministero) general del Estado, ratificata il 15 gennaio dal Consiglio generale del potere giudiziario (Cgpj) con 12 voti a favore e il voto contrario dei 7 magistrati nominati dal Pp.
Oltre che con l’opposizione e con l’andamento del dialogo sulla questione catalana – che graverà come una spada di Damocle sulla sua testa – il nuovo governo dovrà fare i conti con i possibili colpi di coda della vecchia guardia socialista contraria all’intesa con Up e ostile al dialogo con gli indipendentisti catalani; dovrà farli per rendere compatibili il controllo della spesa e la quadratura del bilancio sotto gli occhi vigili di Bruxelles con l’impegno assunto di elevare il salario minimo (già portato a 900 euro nel corso del 2019 con un aumento del 22%) e dello 0,9% delle pensioni; dovrà farli con le organizzazioni degli imprenditori e i sindacati per la riforma del mercato del lavoro; dovrà farli infine al proprio interno tra le due anime che lo compongono e per le quali è ovvio che l’alleanza di governo non significa la fine della concorrenza a sinistra. A fronte di una situazione economica non negativa, con il Pil attestato anche nel 2019 sopra il 2%, lo spread da settimane sotto i 70 punti, il rapporto del debito sul Pil al 97,6% e la disoccupazione alta (14,1%) anche se in leggero calo, determinanti saranno i problemi politici. Per quel che contano bilanci di questo tipo, Iglesias e Podemos hanno vinto su tutto il fronte. Avevano puntato su un governo di coalizione e un governo di coalizione è nato. Si erano sgolati chiedendo l’apertura di un dialogo con l’indipendentismo catalano e l’apertura del dialogo è stata annunciata. Ma sono i socialisti ad essere i più forti e non è detto che non siano proprio loro a rafforzarsi se il governo durerà e saprà mantenere le promesse.
Riassumendo, la situazione politica spagnola presenta tre forti novità e almeno due conferme. Oltre all’inedito governo di coalizione, le novità sono rappresentate dall’ammissione della natura squisitamente politica del conflitto in Catologna e dall’abbandono da parte dell’indipendentismo catalano e basco di quella politica del “tanto peggio tanto meglio” che per troppo tempo aveva pensato di trarre dalle chiusure dei governi di Madrid linfa vitale per crescere e radicalizzarsi. Le conferme, invece, vengono dalla difficoltà che la destra spagnola post franchista ha di occupare il centro, di radicarsi sul terreno democratico e mettere argine alla destra radicale e dal tramonto di una forza ormai residuale, oltre che inutile, come Ciudadanos.
Che dire, infine, del governo spagnolo dalla prospettiva europea? Pur in presenza di segnali allarmanti, le elezioni europee del 26 maggio scorso non avevano visto l’effetto valanga dei partiti sovranisti e delle nuove e vecchie destre che molti temevano. Fermi restando gli argini che i governi di Francia e Germania mantengono rispetto alle forze neonazionaliste, in un modo o nell’altro le più recenti elezioni e rimpasti governativi sembrano aver rafforzato quegli argini. È successo in Portogallo, in Italia con l’auto estromissione della Lega dal governo, in Austria con la nascita del governo di coalizione tra i popolari di Kurz e i Verdi, in Finlandia con il governo socialdemocratico guidato da Sanna Marin, mentre un segnale positivo è giunto anche dalla Croazia il 5 gennaio con l’elezione dell’europeista Milanović.
Certo, le destre sono in avanzata. Spettacolare quella di Vox, passata dall’aprile al novembre 2019 da 24 a 52 deputati. Non se ne arresta la marcia rincorrendone le posizioni, ma con politiche sociali accorte e isolandole con un cordone sanitario. Non è questa la strada imboccata dal Pp spagnolo che dopo un fugace movimento verso il centro è tornato a rincorrere e scimmiottare la destra estrema. L’ha fatto, purtroppo, anche all’Europarlamento il 15 gennaio votando contro la risoluzione che chiedeva di vigilare sulla deriva autoritaria di Polonia e Ungheria.
Riproduzione riservata