Papa Francesco usa ampiamente il concetto di popolo quando parla di comunità cristiana e anche quando si riferisce alla convivenza civile e politica. Siccome si tratta di una parola tanto antica quanto ambivalente e oggi discussa, il significato del suo discorso non è sempre immediato. Questo uso lessicale gli ha attirato precoci e persistenti critiche, in qualche caso piuttosto schematiche e pregiudiziali. Il suo approccio è stato giudicato eccessivamente legato all’esperienza latino-americana, in particolare al peronismo della sua patria d’origine. Altri lo hanno ricondotto nell’orizzonte dell’ideologia populista, perché l’appello al popolo parrebbe incitare una battaglia degli sfruttati contrapposti alle élite sociali e politiche (S. Magister, Bergoglio politico. Il mito del popolo eletto, «l’Espresso», 11.12.2016). In altre letture, lo si è tacciato di tornare a predicare un’indistinta unità religiosa, che sopprimerebbe lo spazio per l’individuo, il conflitto e alla fine quindi anche per la democrazia: «unire le religioni contro l’Occidente secolare, moralmente corrotto» sarebbe l’orizzonte geopolitico del suo pontificato (L. Zanatta, Il filo tra Evita, Fidel e Bergoglio, «Il Mattino», 15.4.2019). Infine, secondo ulteriori voci, la sua attitudine moralistica e antimoderna lo condurrebbe sulla strada di un anticapitalismo del tutto ignorante della realtà (R. Lowry, The Invincible Ignorance of Pope Francis, «Politico», 23.9.2015).
Lo stesso papa è lucidamente avvertito delle possibili incomprensioni del suo linguaggio; in un colloquio con i gesuiti in Colombia, egli ha affermato: «Oggi bisogna fare attenzione quando si parla di popolo! Perché qualcuno dirà: “Finirete per diventare populisti”, e si cominceranno a fare elucubrazioni» («La Civiltà cattolica», vol. IV, 2017, pp. 3-10). È forse possibile invece provare a leggere in modo più articolato i suoi contributi, a partire da alcuni testi precedenti al pontificato, che mi pare gettino una luce più chiara su alcune formule e proposte che egli ha ripreso nei primi testi magisteriali più distesi (dalla Evangelii gaudium del 2013 alla Laudato si’ del 2015).
Le radici del suo discorso: il «popolo di Dio» e il mito del popolo
Appaiono chiari alcuni punti di riferimento essenziali nel bagaglio formativo del papa. Il primo è il riferimento continuo al Vaticano II: la formazione di Bergoglio si inserisce infatti in quel filone gesuita che ha accompagnato e valorizzato la riflessione conciliare, a cavallo tra mondi teologici ed ecclesiali europei e americani (un orizzonte tutt’altro che provinciale). Una delle scelte fondamentali compiute dai padri conciliari era stata quella di modificare la bozza curiale del testo di quella che sarebbe divenuta Lumen gentium (la costituzione dogmatica sulla Chiesa). Nella versione originale dopo il capitolo iniziale sul «mistero della Chiesa» si passava a trattare della «sacra gerarchia» e poi delle altre componenti ecclesiali, in ordine di importanza: su proposta del cardinal Suenens, la maggioranza riformatrice antepose alla riflessione sulle istituzioni ecclesiastiche un secondo capitolo sul «popolo di Dio», cioè sugli elementi comuni tra i credenti che vengono prima di ruoli o vocazioni particolari. Questa metafora simboleggiava una visione di Chiesa radicata nelle memorie bibliche dell’autorivelazione divina consegnata a un popolo (e non a una classe sacerdotale). Il che modificava tutto l’orizzonte della riforma ecclesiale post-conciliare: da qui scaturiva il primato della coscienza battesimale su ogni consacrazione ministeriale, l’insistenza sulla collegialità nell’esercizio dei ministeri di guida della Chiesa, l’enfasi sulle chiese locali nell’orizzonte cattolico-universale, la declericalizzazione della pastorale e la valorizzazione del ruolo del laicato. Non a caso, da papa, Francesco ha sostenuto che il documento essenziale del post-concilio sia stato l’Evangeli nuntiandi del 1975 di Paolo VI, che su questa scia insisteva su una comunità cristiana «evangelizzata» come soggetto locale particolare e specifico dell’annuncio, parlando poi di evangelizzazione delle culture e di rapporto tra evangelizzazione e «promozione umana».
In secondo luogo, contano le radici specificamente latino-americane di questo linguaggio, in un orizzonte in cui il significato della parola pueblo comprende sfumature più ampie di quelle europee, rimandando alle comunità tradizionali di villaggio e al loro percorso sincretico di meticciato tra culture. Su questa base, la teologia argentina (con alcuni maestri di Bergoglio, in particolare Lucio Gera e Rafael Tello e poi Juan Carlos Scannone e Carlos Galli) ha sviluppato propriamente una «teologia del popolo» che partiva dall’idea di un cristianesimo che nel corso della storia si è trovato a incarnarsi in una molteplicità di culture locali.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 6/19, pp. 940-948, è acquistabile qui]
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