Ci sono ricordi che restano lì, in quelli che Agostino chiamava i palazzi della memoria, ma che per alcuni di noi sono piuttosto sterpaglie e boschi strani, con improvvisi agglomerati di città e di stelle, di volti e frasi e luci, e lame che affondano nel cuore, spietate e repentine. Ci sono ricordi che fanno da segnavia in questo caos da cui ogni mattino rigermoglia il mondo, e stanno lì come a indicare il sentiero semicancellato della nostra vita, le sue svolte, le salite, i détours, i luoghi di sosta. È da uno di quelli che vorrei partire.

Fu ai piedi della scala che saliva al salone principale della Biblioteca della Normale, nel vasariano Palazzo della Carovana, che fa da sfondo a una delle più incantevoli piazze italiane, la Piazza dei Cavalieri a Pisa. Ai piedi della scala – tutta da salire, così severa e imponente, la grande scala che portava alla Biblioteca: certo un bel segnavia – ti ho incontrato la prima volta. Eri poco più che un ragazzo: dal bell’ovale morbido del tuo volto, e dagli occhi vivaci, mi veniva una sorta di attenzione placida e insieme acuta, un’attenzione viva e serena insieme, che cambiò il mio smarrimento di ragazzina stranita, appena ammessa a studiare nel tempio dei sapienti, in un moto di speranza e fiducia. Eri il primo professore che incontravo – un giovane assistente, forse avrai avuto neppure una quindicina d’anni più di noi studenti, e parevi così affabile che, con quella che per tutti i miei anni alla Normale continuai a considerare una gaffe inspiegabile e irrimediabile, ti diedi subito del tu, senza neppure chiedere il permesso, immediatamente poi avvampando di confusione e di una vergogna che il tuo sorriso impassibile e indulgente non riuscì a dissipare.

Avevi allora scritto forse solo tre o quattro dei trenta o quaranta libri che restano di te – e sono tutti libri di scrittore, oltre che di studioso e filosofo, avventure e viaggi, minori o maggiori, del pensiero, fatti con lo spirito del geografo, per portare indietro ordine e nuove mappe per tutti i viaggiatori, e non (come di solito accade ai saggisti prolifici) per variare in mille chiavi l’inno monotono dell’ego a se stesso. Il contrario di un Michel Leiris, per dire, e parlo di un uomo di sostanza ancorché non di coerenza, non di un qualunque retore e sofista di quelli che oggi, come sempre, hanno infinitamente più successo dei filosofi. No, tu, a dispetto di tutta la tua affabilità, eri una sorta di impassibile incarnazione del motto di Bacone e della filosofia: de nobis ipsis silemus – de re agitur. Non a caso era Spinoza forse il filosofo che più ammiravi, e sospetto che una ragione simile fosse alla base della serietà con cui leggevi Hegel, che per rappresentare il mondo in ogni suo decisivo dettaglio, dall’ascesa di Napoleone ai verdi di Giotto, senza però che se ne evincesse mai l’arbitrio del punto di vista, aveva dovuto inventarsi lo spirito del mondo e la coscienza assoluta, errore in cui però mi pare tu non l’abbia mai seguito…

Allora, appunto, era soprattutto come grande studioso di Hegel e delle sue letture novecentesche che già eri famoso. Del resto devo a quegli anni e ai tuoi seminari su quel tema tutto quello che ne so, perché in seguito, terrorizzata non dalle tue sempre limpide parole, ma dalla perentoria e arbitraria pressione di “quell’io che è un noi, quel noi che è un io” sulla fragilità della mia propria – e assai confusa – coscienza, fuggii appena mi fu possibile via dalla storia (o così mi illudevo) a studiare la logica a Oxford, fra gli eredi del Dottor Sottile. Erano i tardi anni Settanta. Tanto devo a quegli anni, a quella Scuola che mi regalò fiducia e borse e viaggi, che aveva un giovane talento come te fra i suoi maestri; tanto devo al sistema pubblico dell’università e della ricerca, all’Italia di quegli anni – e già allora mi chiedevo se sarei stata mai capace di restituire un po’ di quella grazia al Paese e alle sue scuole.

Un dubbio che si rivelò ben fondato, purtroppo. Quando tornai a insegnare nella mia città, agli inizi del nuovo secolo, la mia generazione aveva quasi finito di distruggere l’università, a colpi di intese consortili – e credo che perfino tu, che dagli anni Novanta avevi cominciato a essere invitato a insegnare in tutto il mondo, da Cambridge a Ottawa, da New York a Città del Messico, da Girona a Toronto, da Città del Messico a Los Angeles, abbia dovuto constatarlo di persona. Eppure, lungi dal fartene scalfire, con la tua consueta, impassibile mitezza, regalasti anima, pensiero e lustro a una delle poche, bellissime tradizioni autoctone della cultura italiana, quelle grandi feste del pensiero, della letteratura, delle scienze che animano le piazze del Paese, e fanno da contravveleno, finché durano, alla marea montante dell’insipienza e della brutalità cui stiamo ancora una volta assistendo. Come se non fosse bastata l’avventura tragica del secolo scorso, a proposito di “prima gli italiani”. E quanto alle piazze incantate, penso certo alle cento città che ti hanno conosciuto, penso all’oro delle nostre colline toscane e ai simposi sotto il cielo stellato d’agosto nella nostra Maremma, con Gabriella e gli altri con cui ci fu dato trovarci in amicizia, a quel pugno di sere che nel ricordo restano come la dolcezza di tutta una vita. Ma penso in primo luogo alle piazze di Modena e dintorni, in cui con Michelina Borsari, una colonna esile e fortissima di questa sorta di felice Università Popolare Europea, hai disegnato e animato il Festivalfilosofia negli ultimi vent’anni. Dove la filosofia – scrive Michelina Borsari nell’intensissimo e insieme storicamente, filosoficamente, bibliograficamente impeccabile ritratto che ti ha dedicato sul “manifesto” (9.11.2019) – “ha riacquistato la natura di laboratorio concettuale in cui sperimentare le migliori risposte ai problemi che coinvolgono persone e società”.

Non solo sulla stampa italiana di questi giorni, ma anche nei social emergono copiosi i ricordi e la gratitudine di molte e molte persone che hanno potuto almeno una volta ascoltarti, in università, in un teatro, in una scuola. Una delle più eleganti brevi laudatio l’ha lasciata Paolo Costa che tuo allievo non fu – ma di Charles Taylor, un uomo di fede e sensibilità così diverse dal tuo lucreziano e insieme profondamente liberale amore della realtà. Eppure Paolo Costa è sempre acuto: “Quel tipo di filosofia lì – quel misto immensamente desiderabile di erudizione, intelligenza e indulgenza – oggi praticamente non esiste più”. È vero: ma tu non avevi soltanto quelle tre signorili virtù. Non eri solo il gran signore della filosofia che parevi a prima vista (e quella signorilità balza ancora talmente viva incontro al cuore dalle tue molte foto, che quasi fa male). C’era molto di più, che imparai ad apprezzare solo nel corso degli anni – perché dopo la Normale non ti fui allieva, troppo smarrita e affamata che ero per capire cosa fossero erudizione e indulgenza, benché mi avesse affascinata la tua intelligenza. E soprattutto lo imparai durante gli anni in cui riuscimmo a coinvolgerti nei “Festival Teatro-Filosofia” della tua nativa Cagliari, gli anni in cui Guido De Monticelli dirigeva il Teatro Stabile della Sardegna. Lì tu riempivi il teatro, tutta la città veniva ad ascoltarti. E lì, osservando il rapimento, l’attenzione tesa e partecipe delle platee, gli applausi scroscianti e senza fine che ti tributavano, capii meglio la tua arte.

Era un’arte che nelle menti – in quelle ignare, ma anche in quelle, in Italia, forgiate, quando andava bene, a colpi di solidarismo cattolico e indifferentismo civile – introduceva una misura di lumi, di leopardiana chiarezza, di lucreziana disillusione, ma tanto festosa di memorie, tanto ricca di passati incanti, da rendere abitabile, anzi amabile, anche un mondo disincantato, purché abitato da curiosità e inquietudine, e soprattutto dall’onesta volontà civile e “citoyenne” che senza parere sapevi insinuare nei cuori. Così docendo dilettavi, inscenando ogni volta uno spettacolo di intelligenza e memoria per suggerire anche alle menti più indifferenti, e a quelle virtualmente più fanatiche, e a quelle minacciate dal cinismo, che non c’è bisogno di invocare un dio per capire quanto degna d’essere vissuta, con onestà e senza inganni, sia la via media e giusta dei lumi, più mozartiana che robespierresca, più amletica che faustiana – anche nella sua equanimità, che riconosce più cose fra la terra e il cielo di quante ne comprenda la filosofia. Che pure in te aveva mano lieve e ragionava senza pedantismi, senza trampoli trascendentali, e soprattutto senza le immani liturgie metafisiche di quei vati di provincia che da noi – e da noi soltanto – godono fama di grandi filosofi.

Tutto questo, quando si offre nella nudità delle idee pure, senza artificio di poesia e di musica, è anche arduo ma necessario insegnamento di etica e politica, di critica e verifica, di scienza e di sapienza: è – quando è vera lezione rivolta ai molti, a tutti – parte di quanto la filosofia possa fare, al suo meglio.

E questo lo capiva ognuno, ragazzi spettinati e signori col cappello, studiosi carichi di libri e impiegati al catasto e tutta la gente che noi siamo, pieni di desideri e di rimpianti, pieni di collere e di compassioni, sguarniti d’arte e spesso anche di parte, orfani di certezza e d’avvenire, appesi a povere, lacerate trame di memoria. E veniva giù il teatro dagli applausi, ogni volta, finita la lezione. Veniva giù il teatro e a volte anche le lacrime nei loro solchi neri di rimmel. Perché alla fine lo capivamo tutti che era quella la sola ricchezza, la sola possibile felicità dei giorni – e che era ancora nostra, che valeva la pena di difenderla – la vita delle parole e il loro senso, la ricerca del vero e la decenza, e la fragile, la mortale nobiltà dell’umano. E questa Europa e tutte le sue lingue, e la nostra, così fragile. Di difenderla dall’umiliazione della prepotenza, dell’arbitro, della cialtronaggine: dall’avvilimento profondo cui queste buie, tribali e sempre rinascenti figlie del risentimento e dell’ignoranza ci avrebbero consegnati, noi e i nostri figli. Lo capivamo tutti – e veniva giù il teatro dagli applausi.

Ecco, questo bisognava dirlo. Che cosa hai portato alla luce – in quel teatro e in cento altri, che erano diventati luoghi di gioiosi appuntamenti, luoghi di una sorta di aereo, spirituale risarcimento per la categoria professionale più preziosa e più umiliata di questo Paese: gli insegnanti di tutte le scuole. Non tutti gli applausi hanno lo stesso senso, lo stesso peso, lo so bene. Ma quando scrosciavano per te, quegli applausi, una cosa ce la mostravano, che a pensarci stringe il cuore e lo serra in una morsa insieme d’ira e di speranza: che cos’è l’Italia, e che cosa potrebbe essere. Se solo la si onorasse, proteggendo, alimentando e lasciando fiorire come deve questa sola cosa necessaria: la grazia dell’intelligenza che nutre, invece di tradire, la “pubblica fede”, la coscienza civile.