La speranza è che sia un governo di legislatura con la voglia davvero di imprimere una svolta. Perché serve tempo, in un Paese che invece vive compulsivamente solo nel presente e nel quale l’offerta politica cerca prevalentemente, se non esclusivamente, temi e decisioni con effetti immediati, percepibili dai beneficiari, da portare subito all’incasso in termini di consenso. Serve tempo perché l’Italia è quasi ferma da vent’anni, con un modello economico di grande successo nel Novecento, ma in grande difficoltà nel nuovo secolo, con i suoi cambiamenti tecnologici, economici e geopolitici; perché la stagione dell’austerità ha portato a una compressione degli investimenti, tanto fisici quanto immateriali; perché un malinteso nuovismo ha progressivamente ridisegnato i grandi servizi pubblici italiani, dalla sanità all’università, indebolendone le funzioni universalistiche e le coperture territoriali. Perché la competizione politica si è giocata sempre più, ad esito di tutto questo, a destra come a sinistra, su promesse di riduzioni fiscali e di erogazioni mirate per inseguire il miraggio di accrescere il proprio piccolo benessere individuale oggi. E va invece riscoperto progressivamente il ruolo dello Stato: non quello del Novecento, ma quello che serve per i nostri tempi: di facilitatore e organizzatore di investimenti pubblici e privati per accrescere strutturalmente il benessere collettivo.
Vasto programma!
Un buon punto di partenza – già dalla legge di bilancio – può essere il rilancio degli investimenti pubblici; ormai ai minimi storici, non più in grado anche solo di manutenere di già modesto capitale pubblico del Paese; ben più in grado di tagli fiscali o spesa corrente, di creare un effetto “moltiplicativo” di rilancio. Specie se indirizzati con intelligenza non tanto per principio alle opere grandi per dimensione unitaria, ma a quelle grandi per il loro effetto sulla competitività delle imprese e sulla qualità di vita dei cittadini. Le reti pendolari intorno alle grandi città; i collegamenti interregionali: tanto per intenderci. Naturalmente, verso tutto ciò che faciliti una transizione di lunga lena verso un modello di sviluppo più sostenibile (e quindi, spesso, assai più efficiente).
Il governo in formazione potrebbe fare da fulcro per un grande confronto con la nuova Commissione europea. Per ottenere ciò che il buonsenso, Mario Monti e Romano Prodi, tanti economisti, indirettamente lo stesso Fmi chiedono da tempo: la “regola d’oro”. Lo scorporo cioè dei nuovi investimenti pubblici dalle regole del Patto di Stabilità, a cominciare da quelli di cofinanziamento delle politiche europee. Oggi potrebbe esserci in Europa, per tanti motivi, un clima assai più favorevole che in passato per discuterne. E grande attenzione devono meritare le – non semplici – politiche pubbliche per stimolare e indirizzare verso l’innovazione gli investimenti delle imprese, attraverso un intervento pubblico facilitatore. Senza illusioni dirigistiche, ma senza paura di tornare a discutere anche del ruolo delle imprese pubbliche, come ad esempio suggerito dal Forum Disuguaglianze e Diversità.
L’altro punto di partenza può essere l’avvio di un progressivo ridisegno dei grandi servizi pubblici nazionali. Una scuola in grado di intervenire sui deficit di saperi e capacità di fette assai ampie della popolazione, giovane e adulta; una estesa rete universitaria nazionale, per lasciare in tempi brevi l’ultimo posto in Europa per percentuale di giovani laureati; un sistema sanitario nazionale rafforzato nella sua dimensione pubblica ed universalistica; un Welfare capace di includere i più deboli e bisognosi; servizi di trasporto pubblico più estesi. Su ognuno di essi non mancano suggerimenti e possibilità, da quelli avanzati per la sanità da Bindi, Dirindin e Turco alla possibilità di mettere bene insieme il buon disegno tecnico del reddito di inclusione di Gentiloni e le giuste ambizioni di copertura del reddito di cittadinanza grillino. Non si tratta solo di investire progressivamente di più nella salute, nell’inclusione, nell’istruzione e nel diritto alla mobilità degli italiani, avvicinandosi ai livelli europei; ma di farlo anche molto meglio, e compatibilmente con le possibilità di bilancio. Cosa del tutto possibile, se si riacquista un respiro riformista, se si torna a voler coniugare i bisogni dei cittadini (la necessità dei servizi) con i meriti (l’efficienza e l’efficacia) di chi li fornisce. Le stesse chiavi che, abbandonando le ipotesi para-secessioniste delle autonomie differenziate, possono servire per accrescere equità ed efficacia dell’azione di Comuni e Regioni.
L’incontro fra due forze politiche assai diverse, come 5 Stelle e Pd, può portare a una sterile, continua battaglia per intestarsi questo o quel piccolo provvedimento; con risultati facili da prevedere. Ma, a voler essere ottimisti, molto ottimisti, potrebbe anche forse produrre effetti sorprendenti: ad esempio quello di abbandonare slogan troppo facili e provare a guardare il Paese, leggere le carte, disegnare pazientemente soluzioni ambiziose. Chissà se le straordinarie difficoltà degli italiani, il baratro possibile di un leghismo becero e antieuropeo, ma soprattutto il desiderio di questo Parlamento di lasciare un segno non producano un piccolo miracolo: un riformismo pragmatico che rilanci la voglia degli italiani di investire sul proprio futuro collettivo.
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