Sull’isola di Ventotene, in una delle conversazioni che si tenevano tra i prigionieri politici spediti al confino dal fascismo, Guido Ravaioli interrompe Sandro Pertini e pone ai suoi compagni di prigionia una domanda: Cosa può dare questo libro a noi, oggi e qui?
Il libro di cui si discute in quel frangente è La macchina del tempo di H.G. Wells, ma il quesito vale anche per chi si approccia al nuovo lavoro da solista di Wu Ming 1. Cosa può dare a noi, oggi e qui, il suo libro? In fondo questa domanda e la sua possibile risposta attraversano senza soluzione di continuità La macchina del vento (Einaudi, 2019, 337 pp.), posto che in ogni sua pagina si intersecano e si sovrappongono almeno tre distinti piani di lettura: la storia di Erminio Squarzanti e Giacomo Pontercorboli ambientata a Ventotene negli anni della dittatura fascista, l’illusione fantascientifica alimentata da una misteriosa macchina del tempo che proietta protagonisti e lettori in un universo parallelo e, infine, l’angusto presente italiano che sconta la deriva populista e reazionaria in atto e che ci chiama, proprio in questi giorni, a confrontarci sul futuro dell’Europa e sulle strategie di resistenza democratica.
Squarzanti e Pontecorboli sono due personaggi di fantasia che si muovono però in un contesto realmente esistito, nonché accuratamente ricostruito, e che incrociano, nel confino di Ventotene, alcune figure fondamentali dell’opposizione al fascismo: Pertini, Spinelli, Colorni, Terracini, Secchia, Soccimarro e via dicendo. In quell’isola e in quel tempo dove si concentrarono, loro malgrado, alcune tra le migliori menti del Paese e dove maturarono in anticipo le condizioni che portarono all’unione delle forze antifasciste, e dunque alla Resistenza, l’arrivo di Pontecorboli, allievo di Fermi e amico di Majorana, porta in dono a tutti i confinati il miraggio di una fuga imprevedibile: non dalla prigionia, ma dalla propria epoca. Non è certamente poco, perché se il tempo in cui vivi ti sta stretto allora inevitabilmente cerchi strade per scappare e perché proiettarsi nel futuro è in fin dei conti sempre un modo per non restare prigionieri del presente. Ma non è nemmeno abbastanza, ed infatti il fascino della macchina del tempo vagheggiata da Pontecorboli svanisce non appena si intravede la possibilità di tornare a forgiare il futuro, qui e non in un’altra dimensione: se il marchingegno misterioso aveva alimentato sogni e fantasticherie, l’obiettivo di contribuire alla costruzione di sistema democratico, o socialista, o comunista, fa rivivere l’impegno, le energie, l’analisi politica. Quando il regime fascista comincia a scricchiolare e la storia si rimette in moto non c’è più bisogno di una macchina del tempo; la macchina del tempo sono di nuovo gli uomini che fanno accadere le cose, la macchina del tempo siamo di nuovo noi.
Il materiale assemblato da Wu Ming 1 in questo bel romanzo è certamente denso quanto eterogeneo. C’è la quotidianità grama e dolorosa di chi sconta il confino, ci sono pezzi consistenti dell’ingloriosa avventura bellica del fascismo, c’è una notevole dose di fantascienza, ci sono molti personaggi noti e altri soltanto verosimili, ci sono riflessioni politiche di grande interesse – come il rapporto tra élite e masse e le forme da dare all’Europa unita – ci sono i miti greci decostruiti e riassemblati in funzione delle esigenze contingenti e c’è, infine, il kairos, il tempo supremo della consapevolezza e delle scelte che batte sull’isola di Ventotene. Quello che ne viene fuori, va da sé, è un libro poco usuale – addirittura sperimentale, potremmo dire – che contiene l’ambizione di aprire nuove strade al modo di narrare il passato ma anche, ci pare, di attraversare il presente.
Quanto alle forme del romanzo, si deve ricordare che in una riflessione scandita in più puntate e apparsa nell’estate del 2017 sulle pagine culturali del «Sole - 24 Ore», Gianluigi Simonetti evidenziava come l’ibridazione dei generi rappresenti una delle caratteristiche salienti della letteratura italiana contemporanea. Di questo processo i Wu Ming sono certamente tra i principali protagonisti, avendo dato la stura, già venti anni fa con Q (a firma Luther Blisset), a un nuovo modo di raccontare la storia. Risultato che il collettivo bolognese ottiene mediante una serie di accorgimenti: la presenza di più voci narranti con conseguente moltiplicazione dei punti di osservazione; la narrazione in presa diretta; la centralità dei movimenti laterali e di alcuni personaggi apparentemente secondari; la sovrapposizione non sempre decifrabile di vero e verosimile; la contaminazione costante di dati accertati e di invenzione. A ciò va aggiunto l’uso sapiente di quello che lo stesso collettivo definisce il discorso del dubbio, ovvero il ricorso ad una narrazione che si presta a diverse letture finalizzata a stimolare la riflessione critica. Operazione centrale in quest’ultimo lavoro e particolarmente utile in un tempo in cui ci abituiamo lentamente ad un confronto pubblico imperniato sugli slogan e sulla rimozione del dubbio.
Più in generale, il metodo utilizzato nei precedenti romanzi storici dai Wu Ming è riproposto per intero in La macchina del vento, ma è anche aggiornato dalla scelta di introdurre elementi tipici della letteratura di fantascienza, riproponendo quanto già compiuto nell’ultimo romanzo (Proletkult) firmato a più mani. Questa innovazione, in realtà, non modifica solo la cifra stilistica del lavoro dei Wu Ming ma sembra anche indicare l’esigenza di proiettare fuori dalla storia la ricerca di conflitti da assumere a modello. In fondo, tutta la produzione storica del collettivo si può leggere come un unico racconto della millenaria lotta tra i privilegiati e gli sfruttati, tra i ricchi e i poveri, tra le élite e il popolo. Una lungo susseguirsi di rivoluzioni stroncate, fallite, vittoriose, amputate a cui si aggiunge ora la scia di rivoluzioni solo immaginate, ma comunque possibili e dunque verosimili.
Se la storia dell’umanità è la perdurante riemersione di un conflitto inesauribile – e che non a caso rivive anche nel futuro descritto da Wells, attraverso la contrapposizione tra Eloi e Morlocchi – la storia praticata dal collettivo è anche il luogo dei miti, delle mistificazioni, degli ossimori e dei fraintendimenti.
Tra gli ossimori, ad esempio, emerge quello dell’Internazionale dei nazionalismi, che per l’appunto viene ciclicamente vagheggiata dalle destre patriottiche (e ora rivive prepotentemente nella propaganda dei Salvini, degli Orban, dei Le Pen) ma che inevitabilmente si infrange sugli egoismi che ne foraggiano la crescita, proprio come accadde quando la voracità del fascismo italiano si tramutò nell’aggressione alla Grecia e nel tentativo di spazzare via la dittatura di Ioannis Metaxas.
Tra i miti, partoriti dagli eventi, vi è certamente quello di Ventotene, dove Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni stesero il Manifesto per un’Europa libera ed unita e dove soffiò per la prima volta, secondo una certa retorica, lo spirito dell’Unione europea.
Molte pagine del romanzo sono dedicate proprio a questo Manifesto, sottratto da Wu Ming 1 al giudizio strumentale ed “eroico” che oggi lo accompagna e ricondotto a quello che esso veramente fu: un documento certamente originale che però incontrò critiche robuste già sull’isola di Ventotene e che conteneva una serie di contraddizioni che gli stessi confinati avevano colto ed espresso. Al di là della curiosità indotta dalla lettura di episodi, dialoghi e confronti poco conosciuti, il racconto sembra funzionale al raggiungimento di almeno un paio di obiettivi. In primo luogo, appare evidente lo sforzo di strappare il Manifesto di Ventotene, o meglio la sua proiezione mitica, alla retorica delle forze politiche che hanno guidato la torsione tecnocratica dell’Unione; da altro versante, si percepisce la volontà di sfuggire all’identificazione tra il Manifesto di Spinelli e l’esperienza del confino, che fu tante, e anche più importanti, cose: sofferenza, solitudine, incontri, resistenza, pensiero politico complesso e diversificato.
Eppure, come afferma l’Autore del nostro romanzo in una recente intervista apparsa su «Jacobin», resta inteso che se oggi dici «Ventotene» scatta il cliché: «Dove è nata l’Unione europea!». Tutta la potenza, la carica di anticipazione di una storia vasta, complessa e ricca di sfumature come quella del confino politico sull’isola viene ridotta a un europeismo bidimensionale e strumentale, e perciò ineluttabilmente impoverita.
Nella Macchina del vento Ventotene non è l’isola dove nasce l’Europa, ma il luogo in cui prende avvio la Resistenza. E oggi abbiamo bisogno di Resistenza più che di Europa, sembra pensare Wu Ming 1.
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