In vista del voto europeo, i 5 Stelle di governo hanno cercato di arginare l’emorragia di consenso raccontata dai sondaggi abbozzando un loro «profilo internazionale». Tutti ricordano la frettolosa visita all’ala destra dei gilets jaunes, costata il richiamo a Parigi dell’ambasciatore a Roma (non accadeva dalla dichiarazione di guerra del 1940), ma la peggiore sceneggiata di quel breve periodo antifrancese rimane questo siparietto tra Di Maio e Di Battista dinanzi al Parlamento europeo di Strasburgo. Sulla sede storica dell’assemblea per cui votiamo tra diciotto giorni il vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano si è espresso come segue:
“Pensate che in questa città, Strasburgo, quando si riunisce il Parlamento i prezzi lievitano ovunque, scatta un cartello degli albergatori e dei ristoratori e diventa sostanzialmente la settimana del Parlamento europeo. Dunque capirete perché la Francia non vuole mollare questo spreco da 1 miliardo di euro a legislatura, perché serve prima di tutto a dire che c’è una sede in Francia del Pe e poi a fare girare l’economia di questa città… Tenete presente che quello che avete alle nostre spalle non è solo uno spreco, è il simbolo dell’arroganza di un’Unione europea che a noi viene a rompere le scatole anche su quanto dobbiamo aumentare la pensione di invalidità agli invalidi, e ci hanno fatto una guerra su Reddito di cittadinanza e Quota 100, ma quando si tratta di Paesi come la Francia si può fare quello che si vuole. Quindi, iniziamo a eliminare questi simboli dell’arroganza, queste marchette europee perché poi tutto il mondo è Paese, accusano sempre l’Italia ma esiste in tutto il mondo questo modo di fare politica, e cominciamo a recuperare risorse che servono per tante cose.”
La prima cosa cui ho pensato mentre ascoltavo il livello umiliante di queste argomentazioni è che Luigi Di Maio è del luglio 1986: ha esattamente la mia età e, come provai a spiegare dopo le politiche del 2013, è arrivato lassù anche a nome della mia generazione. Così come buona parte dei nostri genitori porta con sé i segni della stagione del Settantasette e può specchiarsi – faccio solo un esempio – nei personaggi di Nanni Moretti, noi trentenni di oggi guardiamo a Di Maio, Di Battista e altri selezionati dalla Casaleggio Associati e ci accorgiamo, magari con raccapriccio, di assomigliare loro, di utilizzare gli stessi linguaggi o di condividere il medesimo immaginario.
Nessuno lo ha scritto, e mi rendo conto di quanto sia ridicolo farlo notare, ma solo a dei bambini degli anni Novanta poteva venire in mente di mettere la prima tessera del «reddito di cittadinanza» sotto la teca a cupola di Paperon De Paperoni, perché un’idea simile – tra l’altro assolutamente contraddittoria dal punto di vista dei significati simbolici suscitati – presume ore e ore di somministrazione televisiva dei DuckTales, una pionieristica serie Disney che dal 1988 anche Rai Uno trasmise per qualche anno, e che divenne celebre perché al posto di Paperino metteva al centro il ricco zio e i suoi corroboranti bagni di monete d’oro nel caveau del suo deposito. Ore d’infanzia che evidentemente sono state sottratte ad altre esperienze fondative, e che quando si è trattato di festeggiare l’«abolizione della povertà» sono riemerse dagli abissi dell’inconscio.
La seconda cosa che ho pensato mentre Di Maio straparlava del cartello dei ristoratori è che, dieci anni prima della nascita dell’Unione europea e dei suoi molteplici deficit democratici (1992, Trattato di Maastricht), l’italiano Altiero Spinelli aveva radunato proprio in un ristorante strasburghese una decina di eurodeputati per convincerli ad appianare le loro divergenze ideologiche e a sposare il progetto di una costituzione sovranazionale, che fosse promossa dai rappresentanti del popolo europeo – un anno prima, nel 1979, si erano tenute la prime elezioni europee e si sperava che un’assemblea finalmente legittimata dal voto potesse sostituirsi ai governi nella costruzione politica dell’Europa. Quel simposio di deputati, che con un ossimoro parzialmente fuorviante potremmo anche descrivere come «sovranisti europeisti», prese il nome di «club del coccodrillo», in omaggio al ristorante in cui si riuniva: Au Crocodile. Ecco, mentre ascoltavo il mio coetaneo mi sono chiesto cosa avrebbe potuto dire se fosse stato al corrente di questo aneddoto.
In fin dei conti è un bene che Di Maio non conosca certi personaggi non Disney, altrimenti in quel videoselfie sarebbe stato capace di chiedere con tono insinuativo se «quel grande saggio» pagò di tasca sua il conto di quelle inutili tavolate su una costituzione europea mai entrata in vigore o se alla fine, dato che «tutto il mondo è paese», presentò gli scontrini del suo «club esclusivo», gravando sui contribuenti.
Domani è il 9 maggio, e chi, con gratitudine, ricorda la generazione politica di Jean Monnet, Robert Schuman e Altiero Spinelli – il quale ha sempre insistito sul realismo della prospettiva federale, contrapponendosi al realismo dei fondatori delle Comunità economiche – deve a quei padri e all’Unione europea che ci hanno lasciato altrettanta realtà. Dobbiamo avere la serietà di ammettere che a sessantanove anni dalla Dichiarazione che istituì la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio i giovani governanti italiani non sanno perché il Parlamento europeo è nato a Strasburgo, non comprendono il valore simbolico dell’Alsazia nella pacificazione franco-tedesca, non reputano rilevante che a Strasburgo risiedano il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei diritti dell’Uomo – è davvero una cosa così insensata che una volta al mese parlamentari dell’Unione europea lavorino di fianco a queste istituzioni? Insomma, ignorano la storia europea, i suoi simboli e in ultima istanza i suoi valori.
Io, Di Maio e milioni di italiani nel pieno delle forze fisiche, intellettuali e professionali, siamo nati a pochi mesi dalla morte di Altiero Spinelli, ma solo una piccola, fortunata parte di noi ne ricorda il nome (e probabilmente non per merito della scuola). Io e Di Maio non abbiamo conosciuto il dopoguerra, non abbiamo visto la ricostruzione e non abbiamo siglato quel famigerato patto sociale di cui tutti parlano, di cui vediamo solamente la coda, «la crisi». Apparteniamo a una generazione nata al tramonto, la prima generazione dal ’45 che ha chiaro in partenza che non starà meglio di chi la ha preceduta, sebbene abbia a disposizione più titoli di studio e mezzi tecnologici impensabili solo qualche decennio fa. Rabbia, disillusione e nichilismo sono la benzina della nostra arroganza, fungono da alibi per le nostre pigrizie, da giustificazione per le nostre mancanze, da autorevolezza per le nostre lamentele, da nobilitazione per le nostre volgarità e ignoranze. Quel video di Di Maio e Di Battista è grave perché, al pari loro, è rappresentativo.
Se questa è la realtà dei fatti, a maggior ragione si può sostenere che nel 2019 la sede strasburghese del Parlamento europeo non abbia ragione di esistere: dal punto di vista pratico non lo ha più dagli anni Sessanta, perché le istituzioni e la vita politica delle Comunità si spostarono molto presto a Bruxelles, e con essa anche il Parlamento, sebbene al tempo non fosse ancora elettivo. Dopotutto, forze politiche e petizioni che chiedono con validi argomenti l’abolizione della sede di Strasburgo esistono da anni in diversi Paesi, ed è vero che a queste si contrappone innanzitutto il veto francese, portatore di crudi interessi nazionali. Ma per abolire questo «costo della storia europea» non c’è un solo discorso possibile: se avessimo un’idea di futuro, se fossimo dotati di una minima statura etica e di un minimo di cultura politica, saremmo quantomeno capaci di mettere sulla bilancia tutti i valori, materiali e immateriali, e magari di scegliere consapevolmente che l’Europa odierna può fare a meno di un simbolo del passato, perché la casa comune a cui stiamo lavorando si fonderà su altri luoghi di memoria e su nuove visioni internazionali.
La gravità del video propagandistico realizzato dal vicepresidente Di Maio non è, quindi, nel merito della sua proposta – assolutamente legittima –, né nella consueta manipolazione della realtà (qualora si abolisse quella sede il contribuente italiano non se ne accorgerebbe, ma pazienza, si sa che i politicanti nominano le tasche degli elettori). La gravità è nella totale inconsapevolezza storica e politica con cui quest’ipotesi viene formulata, nella facilità con cui si dileggia una sede istituzionale di importanza epocale, descrivendolo come il palazzo di un Paese solo con la sola autorevolezza del blocchetto dei conti appeso alla calamita sul frigo. Purtroppo, quegli argomenti vengono dalla «cultura» profonda di una nuova generazione di decisori politici, forti di un consenso ampio. Dopo i padri fondatori e i figli contestatori, serpeggia in noi trentenni italiani la terribile sensazione di essere i nipoti affondatori. Dovremmo cominciare a parlarne, per capire se ci sta bene così.
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