Il 2018, apertosi in Italia con la vittoria di Movimento 5 Stelle e Lega alle elezioni politiche, in Francia si è chiuso con le proteste dei gilet gialli che, sia pur in modo confuso e a volte contraddittorio, hanno tentato, almeno in un primo momento, di portare avanti rivendicazioni di maggiore giustizia sociale e di uno Stato che torni a proteggere le classi più sfavorite. L’avanzata dei populisti in Italia e in altri Paesi, il successo di partiti di estrema destra, le proteste di piazza francesi, ma anche la Brexit e il successo di Donald Trump negli Stati Uniti, sono tutti fenomeni fortemente radicati nei rispettivi contesti storici e istituzionali. Tuttavia, al di là delle ovvie differenze, hanno un filo rosso che li lega, rappresentato dalla crisi dei partiti moderati, siano essi una socialdemocrazia ormai ridotta ai minimi termini, o una destra sociale che sopravvive solo dove rincorre i populisti di destra.
È l’onda lunga della crisi che ha scosso l’economia mondiale e che proprio nel 2018 marca un anniversario importante: nel settembre 2008 falliva infatti Lehman Brothers, il simbolo di quelle banche d’affari onnipotenti che avevano fatto il bello e il cattivo tempo per un ventennio, durante il quale alcuni parlavano di «fine della storia» e di trionfo definitivo del modello di organizzazione sociale ed economica rappresentato dalle grandi democrazie liberali. Sono proprio le grandi democrazie liberali, e la loro incarnazione nei partiti moderati, ad essere messe oggi in crisi da una contestazione che con forme diverse non risparmia alcun Paese occidentale.
Qui proverò a legare le origini profonde della crisi economica, e il disagio sociale che la crisi ha aggravato ma non creato, a una stessa causa: l’aumento vertiginoso della disuguaglianza in gran parte dei Paesi avanzati ed emergenti. Un aumento che vede un chiaro vincitore, il ristretto gruppo di «plutocrati globali» che si appropriano di una parte sempre più grande della torta; e anche un chiaro perdente, quella classe media e inferiore dei Paesi avanzati che si trova schiacciata tra l’1% più ricco (quasi tutto localizzato nelle grandi democrazie occidentali) e una rampante nuova borghesia dei Paesi emergenti.
Vedremo come le cause profonde della crisi finanziaria, con l’accumulazione di squilibri globali sempre più marcati, possano essere ricondotte all’aumento della disuguaglianza che ha imposto forti distorsioni nei comportamenti di consumo e risparmio, e condotto all’accumulazione di debito eccessivo in alcuni Paesi. La crisi ha provocato un’ulteriore divaricazione di redditi e ricchezza, e un aumento della fragilità delle nostre economie, oltre a strappare definitivamente un tessuto sociale che aveva iniziato a sfilacciarsi ben prima del 2007-2008.
Alla fine, arriveremo alla logica implicazione secondo cui la riduzione della disuguaglianza dovrebbe essere la priorità numero uno per una politica che desideri preservare il modello sociale delle democrazie liberali avanzate (e in particolare dei Paesi europei), e sulla base di questa considerazione suggeriremo qualche possibile linea di intervento all’alba di una nuova legislatura europea.
Una crisi finanziaria?
L’individuazione precisa dei fattori che hanno portato alla peggior recessione dagli anni Trenta del secolo scorso è fondamentale per orientare il dibattito sulle scelte di politica economica necessarie per evitare che si ripeta. Capire con esattezza come e perché si sia giunti a una crisi sistemica di queste proporzioni è condizione preliminare per discutere in modo coerente delle prospettive future in termini di politica economica e di riforma istituzionale.
Val la pena ricordare brevemente quali sono le cause contingenti della crisi. L’elemento scatenante è la combinazione letale di due fattori: il primo è la deregolamentazione progressiva del sistema finanziario (in particolare statunitense), cominciata negli anni Ottanta e culminata nel 1999 con l’abolizione da parte dell’amministrazione Clinton del Glass-Steagal Act. La deregolamentazione ha consentito il proliferare di innovazioni finanziarie sempre più sofisticate e opache, il cui obiettivo teorico era di distribuire e minimizzare il rischio, ma che in realtà hanno avuto come risultato la sempre maggiore divaricazione tra la presa di rischio e il rendimento atteso degli investimenti finanziari. Questo ha indotto gli investitori, a tutti i livelli, ad assumere (a volte senza esserne pienamente consapevoli) rischi eccessivi, e ad aumentare in maniera eccessiva il rapporto tra indebitamento e fondi propri (leverage). Il secondo fattore che ha contribuito alla crisi è l’eccesso di liquidità causato in parte da fasi di politica monetaria (soprattutto negli Stati Uniti) troppo accomodanti, ma soprattutto dagli eccessi di risparmio di intere regioni del pianeta, come l’Asia orientale e alcuni Paesi europei (in particolare la Germania). I mercati finanziari assai fluidi e la massa di risparmio in cerca di collocazione hanno spinto al ribasso i tassi di interesse, contribuendo all’esplosione dell’indebitamento di famiglie e imprese americane.
Tuttavia, dieci anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, sono in molti a non vedere più negli eccessi del settore finanziario la ragione principale della crisi. La crisi finanziaria è solo un sintomo, che certamente va trattato (in particolare, è lampante la necessità di una migliore regolamentazione dei mercati finanziari), ma senza dimenticare di diagnosticare, e curare, la malattia sottostante.
Le cause profonde della crisi vanno ricercate negli elementi che, fin dai primi anni Ottanta, hanno alimentato la progressiva accumulazione di «squilibri globali». Quando nell’estate del 2007 i primi fondi speculativi falliscono, l’economia mondiale è in una situazione di fragilità strutturale, causata dal progressivo cumularsi di squilibri di segno opposto in aree diverse. Gli Stati Uniti hanno un eccesso di domanda sulla produzione interna, compensato da un deficit commerciale sempre più importante (che nel 2006 arriva a sfiorare il 6% del Pil). Questo deficit è finanziato dagli eccessi di risparmio che, con cause diverse, caratterizzano altre regioni. In Cina e negli altri Paesi dell’Est asiatico, l’assenza di protezione sociale adeguata e di un sistema finanziario affidabile spiega alti livelli di risparmio precauzionale di imprese e famiglie. A questo si aggiunga che, dopo la crisi del 1997, le autorità di quei Paesi hanno iniziato una politica di accumulazione di riserve per far fronte a eventuali nuove crisi valutarie o finanziarie. In Europa, l’eccesso di risparmio è causato dall’inerzia della politica economica e da tassi di investimento insufficienti, che hanno depresso la domanda e il reddito, legando la crescita dell’area alle sole esportazioni.
Questi opposti squilibri si sono compensati per quasi un ventennio, dando luogo a un equilibrio globale rivelatosi fragile al momento della crisi.
Perché l’economia mondiale ritorni a crescere in modo stabile e durevole, quindi, occorre che questi squilibri a livello domestico siano riassorbiti. Per quanto possa apparire paradossale, sia nei Paesi con eccesso di risparmio sia in quelli con eccesso di domanda gli squilibri possono essere ricondotti al notevole aumento della disuguaglianza osservato a partire dalla fine degli anni Settanta. Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie ai ceti più agiati, vale a dire da chi spende in consumi la quasi totalità del proprio reddito a chi invece ne risparmia una parte consistente, ha provocato una riduzione della propensione media al consumo, e un aumento della massa di risparmi. Questo ha avuto due effetti che ritroviamo entrambi nella crisi attuale. Il primo è un’enorme massa di liquidità che ha alimentato fiammate speculative e bolle (borsistiche, immobiliari) in serie. Il secondo, più rilevante, è una cronica carenza di domanda aggregata. Ma come è cambiata la distribuzione del reddito negli ultimi quarant’anni? E, in particolare, chi sono i vincenti e i perdenti di questo processo di ridistribuzione?
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/19, pp. 7-23, è acquistabile qui]
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