Scrivere in questi giorni di primarie del Partito democratico è un compito che risulta vieppiù faticoso e urtante, sia perché avvolto oramai dalla noia (credo non solo di chi scrive) del rituale déjà vu, sia perché sul Pd si sono aggrovigliati tanti e tali problemi da ritenere oramai fuorviante il ruolo e la portata delle primarie. È oramai come sparare sulla Croce Rossa. Il fatto è che le primarie del 3 marzo 2019 sono precipitate all’interno di un enorme buco nero. C’è un problema di contesto entro cui si collocano, e c’è un problema del loro significato intrinseco.

Dal lato del contesto, siamo di fronte a un partito (?) che dalla sconfitta referendaria del 2016 e via via fino alle altre pesanti sconfitte culminate nel tracollo delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 non è riuscito minimamente a offrire un minimo di spiegazione decente dell’accaduto. L’unica (pseudo)spiegazione/giustificazione che è emersa all’interno di una frettolosa riunione di un qualche organismo da parte dell’ex segretario Renzi è l’essersi fermati sulla strada della rottamazione e di non aver saputo usare adeguatamente la comunicazione politica. Veramente ben poco, ma molto irritante e offensivo. Nessuna reale assunzione di responsabilità personale e collegiale. Nessun dibattito in periferia e al centro, nessun coinvolgimento corale e nessuna chiamata dei numerosi soggetti interni ed esterni che dovrebbero comporre un partito. Nessuna reale campagna di ascolto nella società e con la società (il primo compito pregiudiziale per capire e poi agire).

La completa assenza di analisi sulle cause delle numerose e gravi sconfitte porta poi conseguentemente a non potere e sapere indicare una strada credibile e percorribile in termini di politiche, programmi e visione del futuro. È assente la consapevolezza di quello che è oggi la società italiana, con i suoi conflitti e ferite, nel contesto europeo e globale. Certo, ora soffia dappertutto forte il vento populista, ma a contrastarlo sembra esserci più uno spaventapasseri (che peraltro non spaventa più nessuno) privo di vita, immobile e caricaturale, che una qualche parvenza di partito impegnato a porsi all’altezza dei problemi sul tappeto. Il fatto è che il partito, dopo la disastrosa esperienza della leadership di Renzi, risulta un corpo morto e svuotato di ogni energia vitale, intellettuale e collettiva.

Di qui l’insignificanza delle primarie. Che possono mai dire se collocate in tale vuoto? Difatti, i vari concorrenti alla segreteria non esprimono alternative chiare e distinguibili o messaggi diretti in grado di superare i giochi di posizionamenti interni (perlopiù intorno alla figura e all’esperienza di Renzi) e di arrivare all’esterno superando l’autoreferenzialità dei superstiti gruppi dirigenti(?). E poco importa che a partecipare (ma sempre meno) al rito delle primarie sia – si spera – poco più di un milione di elettori/simpatizzanti. Il risultato di insignificanza in termini di innovazione politica, organizzativa e culturale non cambia.

Il fatto è, io credo, che il contesto del buco nero – lo sfacelo organizzativo attuale – entro cui si svolgono le primarie sia stato creato proprio da quest’ultime e dal modello di partito che esprimono, così come normato da un incredibile statuto. Uno statuto disegnato all’insegna della democrazia diretta tra elettori e leader, di fatto all’insegna del plebiscitarismo e del partito personale, nel quadro di una visione della democrazia maggioritaria profondamente falsata e male interpretata.

Ora, dopo anni di sperimentazione, si può ben fare un bilancio critico, perlomeno a livello centrale e nazionale, fermo restando che le primarie per cariche monocratiche pubbliche a livello locale conservano una loro validità e ragion d’essere (non così per le cariche interne di partito). E ora si può ben ammettere che la modalità diretta delle primarie bypassa ogni arena collettiva per la discussione e la deliberazione. Essa implica l’atomizzazione delle relazioni interne, orizzontali. Le primarie sono un evento puntuale, non precedute da veri momenti di discussione collegiale, giacché i momenti propedeutici sono solo assemblee per la scelta dei candidati alle primarie e alla composizione delle liste collegate, né si concludono o sono accompagnate da qualcosa che assomigli a un congresso, come persino le primarie americane hanno con le Convention. Comunque esse lasciano soli e isolati i votanti dopo l’evento.

Il risvolto delle primarie dirette e aperte a tutti è poi la scomparsa dei congressi, delle grandi discussioni sulle scelte strategiche e sulla linea politica da adottare, a cui chiamare a partecipare tutti gli aderenti. Le primarie hanno sostituito il congresso, ossia il plebiscitarismo ha ucciso la democrazia rappresentativa all’interno dei partiti (chiamata democrazia delegata). Il Pd ha persino cancellato dal suo statuto la parola “congresso”. Insomma, le primarie non possono sostituire la politica e l’organizzazione di un partito. Se queste non ci sono, le primarie sono non solo inutili, ma anche fuorvianti per l’illusione che creano.

Oggi l’immane compito del Pd, o di quello che ne rimane, è di ricostruire un partito, una cultura e un’organizzazione (su questo, come insiste giustamente Gianfranco Pasquino, un silenzio siderale). Ma pregiudiziale a tutto questo, è sbarazzarsi al più presto di uno statuto sbagliato che ha portato a un partito sbagliato e a una ubriacatura ingegneristica (non quella di Sartori!) all’insegna del direttismo e della disintermediazione. Il partito a “vocazione maggioritaria” ha fallito. Bisogna prenderne atto e agire di conseguenza. 

["Questioni Primarie" è un progetto di Candidate & Leader Selection e dell'Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell'Università di Torino, realizzato in collaborazione con rivistailmulino.it. In vista delle primarie del Pd, ogni settimana riprendiamo contributi pubblicati nell'ambito dell'iniziativa tutti disponibili anche in pdf sul sito di Candidate & Leader Selection.]